sabato 31 luglio 2010

Il racconto di un orrore che lascia il segno

L’uomo che verrà
Regia: Giorgio Diritti; anno 2009

L’uomo che verrà è una luce nel buio, la speranza di una nuova vita, mentre tutto intorno è morte. Il flm rivive l’orrore dell’eccidio noto come “strage di Marzabotto”, avvenuto nel settembre del 1944 per mano delle SS naziste, in cui furono massacrati gli abitanti di un intero paese nei pressi di Bologna. Un episodio che spaventa e scandalizza per la ferocia che lo caratterizza: le vittime, circa 770, furono per lo più donne, vecchi e bambini. In questo film, che vanta una rara bellezza e finezza nella realizzazione, la guerra non è raccontata dai vincitori, ma da chi subisce le violenze e le ingiustizie di cui essa si nutre. Sono soprattutto le immagini, così immediate e dirette, di questa crudeltà gratuita, che colpiscono e scandalizzano lo spettatore, il quale vede scene orribili attraverso gli occhi innocenti di una bambina.
Siamo nell’inverno 1943. Martina, otto anni, vive in una famiglia di poveri contadini a Monte Sole, poco a sud di Bologna. Non parla da quando, anni prima, ha visto morire un fratellino di pochi giorni, ma sua madre da poco è rimasta nuovamente incinta. La famiglia di Martina, come tante altre, fatica sempre di più a sopravvivere man mano che i mesi passano e intanto la guerra, inizialmente vista come qualcosa riguardante solo le città, cambia aspetto agli occhi dei contadini, diventando una realtà sempre più vicina. Così, mentre nei boschi si formano le prime squadre di partigiani, per lo più costituite da giovani contadini inesperti e poco colti, si fanno sempre più frequenti i pattugliamenti delle SS, alquanto temute soprattutto dalle madri e dagli anziani. Martina aspetta con trepidazione l’arrivo del fratellino e nel frattempo osserva lo strano mondo che le sta intorno, domandandosi silenziosamente il perché di tanta cattiveria. Finalmente, il piccolo viene alla luce nella tragica notte tra il 28 e il 29 settembre 1944, che, all’insaputa di tutti, precede la famosa strage di Marzabotto. Il giorno successivo infatti, i nazisti danno il via ad una spietata rappresaglia che rimarrà nella storia. Il finale drammatico lascia comunque una luce di speranza: la piccola Martina, rimasta in vita forse per miracolo, riesce a portare in salvo anche il fratellino neonato.
Giorgio Diritti, regista e ideatore de L’uomo che verrà, ha scelto di raccontare questo drammatico episodio dal punto di vista di una bambina che non parla, forse perché non ci sono parole per descrivere una violenza così disumana. La giovane protagonista si ritrova infatti testimone di delitti orrendi e capisce che in guerra non esistono buoni e cattivi, ma solo “molti che vogliono ammazzare qualcun altro”, senza saperne il perché.
Inoltre, al di là della triste vicenda storica, ancora una volta ritorna l’efficacia dell’utilizzo delle immagini e del suono (da notare l’effetto di spontaneità dato dai dialoghi in dialetto). Questo film, tanto bello quanto struggente, offre un meraviglioso spaccato della vita contadina del 1944, raccontando episodi di un’esistenza insieme semplice e difficoltosa, così diversa dalla realtà in cui viviamo, ma non così lontana nel tempo come sembra.

mercoledì 28 luglio 2010

L'Ultimo Confine

Ciao a tutti, oggi voglio proporvi un racconto, a metà fra la fantscienza e il fantasy, che ho scritto qualche mese fa. Il finale è volutamente lasciato aperto per ogni libera interpretazione, spero vi piaccia!

L'Ultimo Confine

“E’ già mattina” fu il mio primo pensiero.
Avevo ancora gli occhi chiusi, ma ero perfettamente sveglia. Non avevo alcuna voglia di andare a scuola perciò mi alzai a sedere sul letto faticosamente e osservai la mia stanza con gli occhi socchiusi. Una tenue luce proveniente dalla finestra rischiarava l’ambiente, segno che fuori era appena l’alba. Dall’alto del mio letto a castello non avevo una visuale completa della camera: potevo scorgere un angolo di finestra e una porzione di muro, sul quale era appeso uno dei miei poster preferiti. Tutto era tranquillo; poiché nessun rumore proveniva dalle altre stanze, probabilmente i miei genitori stavano ancora dormendo.
Stavo per scendere dal letto, quando un brivido particolare mi percorse la schiena. Anche se mi sembrò di aver appena preso la scossa, non potevo dire che fosse stata una sensazione sgradevole.
Tuttavia non ebbi il tempo di pensare alle cause di quella strana sensazione: un capogiro improvviso fece svanire ogni tentativo di concentrazione, costringendomi per un attimo a chiudere gli occhi. Quando li riaprii c’era qualcosa di diverso nella mia stanza, che pure ai miei occhi sembrava identica a prima. Non mi sentivo più tanto lucida, anzi, ogni movimento mi costava una fatica immensa e sentivo i miei pensieri farsi sempre più confusi. Guardai nuovamente l’ambiente intorno a me, ma i contorni di tutto quello che vedevo mi sembravano sfocati e se mi concentravo su un oggetto in particolare non riuscivo a coglierne i dettagli. Questo senso di incertezza mi faceva paura…ero forse ammalata? Mi passai la mano sulla fronte ma non ero sicura di avere la febbre.
Poi, improvvisamente, tutto cambiò.
Io sapevo.
Sapevo che qualcosa di importante era successo; tutto ciò che esisteva era cambiato in modo irreversibile ed io avevo un obbiettivo da raggiungere. Uscii dalla stanza e mi affacciai alla finestra che dalle scale si affacciava sulla campagna intorno alla mia casa. Se fosse stata una mattina qualunque avrei visto in lontananza le luci del piccolo borgo dove avevo frequentato, molti anni prima, le scuole elementari. Ma non c’era alcuna casa, né vicino, né lontano. Ogni segno della presenza dell’Uomo era sparita. In un’altra circostanza mi sarei spaventata, ma in quel momento ero tranquilla: sorrisi nell’ammirare l’alba. Un sole dorato stava salendo dietro le colline lontane, nuvole di porpora riempivano il cielo di un Universo che non era più il mio.
Il Guardiano mi attendeva di fronte ad una porta. Non incuteva timore, ma aveva un aspetto solenne. I suoi occhi grigi mi osservavano con attenzione: erano gli occhi saggi e benevoli di un amico.
“Sono pronta”dissi quando lo raggiunsi.
“Non ancora” rispose il Guardiano severamente “Noi comunichiamo con il pensiero.”
Chinai il capo mortificata. Per un attimo, guardando il paradiso verde che si estendeva al di là di quella che solo per poco sarebbe stata ancora la mia casa, avevo creduto di essere pronta ad affrontare ogni cosa. Invincibile.
Eppure sapevo. Il Guardiano era l’unico del suo popolo in grado di parlare la mia lingua; era
stato istruito a comunicare come gli umani, fin dalla nascita, dal Guardiano che lo aveva preceduto. Egli avrebbe fatto lo stesso con colui destinato a diventare il nuovo Guardiano. Da sempre era così, e per sempre lo sarebbe stato. Ma io non ero capace di comunicare con il pensiero e per questo non potevo ancora varcare l’Ultimo Confine.
Il Guardiano mi sorrise: “Non ti preoccupare. Io sono qui per questo. Sarò il tuo maestro e ti insegnerò tutto ciò che devi sapere” Mentre diceva queste parole, alzò una mano e mi sfiorò la fronte.
Un brivido mi attraversò tutto il corpo e d’istinto chiusi gli occhi.
Vidi un chiarore, una luce intensa, un’esplosione di mille colori.
Davanti a me si stendeva l’Oceano, calmo e infinito.

lunedì 26 luglio 2010

Alla ricerca dei tesori di Internet

Gli italiani che usufruiscono dei numerosi servizi di Internet sono sempre di più. Secondo le stime più accreditate, il numero di utenti nel web sarebbe aumentato significamene a partire dal 1998, fino a raggiungere i 10-13 milioni. Sicuramente Internet è una delle “nuove tecnologie” che ha riscosso maggior successo, non solo in Italia, ma anche a livello globale, rivolgendosi prevalentemente a pubblico medio-giovane. Viene quindi spontaneo chiedersi se veramente il web sia così benefico all’umanità, come sembrano dimostrare le statistiche sull’utilizzo, o se al contrario, possa avere effetti negativi sulle persone.
Senza dubbio Internet è il mezzo di informazione meglio progettato di tutti. Pratico, veloce e, soprattutto, enormemente vasto. Sarebbe impossibile fare una lista di ciò che si può trovare in rete: al massimo si può tentare di pensare a qualcosa che non ci sia. Documenti, immagini, video, pagine interattive e materiali didattici sono disponibili in grande quantità per qualsiasi tema di ricerca, in quasi tutte le lingue parlate. Questo è dovuto alla possibilità di ogni singolo individuo di ampliare liberamente, con il proprio sapere, questa grande enciclopedia che è il web.
Il web è pratico, perché arriva direttamente nelle nostre case e ha il pregio di avere costi relativamente bassi. Purtroppo molte zone, sia dell’Italia, sia del mondo, sono vittime del digital divide, essendo ancora oggi escluse dalla cosiddetta “banda larga” che garantisce un buon rapporto qualità-prezzo del servizio. Grazie a questa nuova comodità, i giovani studenti, in particolare quelli che non abitano in città, sono molto avvantaggiati. Si possono fare ricerche, frequentare corsi universitari, stando comodamente seduti in casa senza più spostamenti difficili.
Internet è anche molto veloce: le notizie viaggiano da una parte all’altra del pianeta con una rapidità sorprendente, bastano addirittura pochi secondi. Un’informazione infatti, appena inserita in rete, può raggiungere immediatamente o quasi, utenti nelle più disparate parti del mondo.
Il web, inoltre (e questa forse è la migliore delle sue qualità), permette di scoprire non una, ma molte alternative a ciò che ci viene detto dalla televisione o dai giornali, i media ancora oggi più valutati dalla maggioranza della popolazione. Attraverso Internet è facile rendersi conto di quante cose, quanti fatti di vitale importanza vengono tralasciati dalla televisione e, ancora peggio, di come vengano modificate e stravolte le informazioni trasmesse.
Internet ha molti altri vantaggi, tra i quali la possibilità di una comunicazione veloce come la posta elettronica e di una comunicazione istantanea, quale la chat. Entrambe le tipologie permettono di mantenere facilmente i contatti con persone che si trovano molto lontano da noi: ci fanno sentire tutti più vicini. Infine, attraverso il web è possibile compiere una serie di movimenti economici, partendo dall’acquisto di articoli di ogni genere, fino alla ricarica del cellulare, prenotazioni di biglietti per treni e aerei e movimenti bancari.
Internet tuttavia è ritenuto molto pericoloso, soprattutto per i “navigatori” meno esperti e per i giovani. I rischi ci sono e non sono da sottovalutare.
In primo luogo, non tutto ciò che si legge o si vede in rete deve essere preso come verità assoluta. Allo stesso modo in cui è pieno di cultura, Internet è anche pieno di falsità e d’inganno. Per accertarsi di un fatto, di un’informazione, è necessario confrontare diversi pareri, diverse affermazioni, altrimenti si rischia di acquisire una conoscenza errata o parziale.
Inoltre, ci sono rischi ben maggiori che una sbagliata informazione. Navigando sul web il proprio computer può venire infettato da un virus, si può venire derubati, si può essere colpiti da immagini violente o pornografiche. Chat e social network possono dare una sorta di dipendenza o peggio, possono dare l’illusione di conoscere una persona, che in realtà, non è chi dice di essere, portando quindi a conseguenze pericolose.
Tuttavia, questi pericoli, che in ogni caso non sono da trascurare, si possono comunque evitare tramite dovute accortezze. Per evitare esperienze spiacevoli è necessario usare prudenza, precauzione e buon senso. Infatti come ogni “invenzione scientifica”, Internet, di per sé non è né buono, né cattivo: gli effetti che il web può produrre, dipendono dall’uso che ne viene fatto. La navigazione in rete dev’essere eseguita in modo consapevole e moderato, per trarre i benefici ed evitare i pericoli. Al contrario, un uso sfrenato e imprudente del web può causare grandi danni alle persone.
Internet è una grande risorsa, che, pur esponendo a qualche rischio, offre numerose opportunità a chi le sa cogliere.

venerdì 16 luglio 2010

Se questa è libertà...

Rapporto libertà di stampa 2009: Italia da 44° a 49° posto nel mondo (Reuters Italia 20 ottobre 2009). Questo dato dovrebbe essere significativo, ma evidentemente più della metà degli italiani (51,85%) pensa che il nostro sia un paese libero, felice e senza problemi.
Certo, le interviste a donne sorridenti che escono da negozi lussuosi piene di borse sono molto rassicuranti. Intanto però le fabbriche chiudono e migliaia di persone, con famiglie da portare avanti, perdono il lavoro e la dignità.
Certo, scoprire che le tartarughe fanno amicizia con i cagnolini è molto divertente. Molto meno lo sono i video (mai trasmessi alla televisione) in cui i poliziotti picchiano a sangue, con i manganelli, donne, vecchi e ragazzi che reclamano, pacificamente, per i loro diritti sempre trascurati.
Aggiornarsi sui nuovi gusti dei vip, ed imitarli, fa sentire importanti. Ma diventa difficile, almeno per me, sentirmi importante, quando i telegiornali riportano le notizie di milioni (non migliaia) di persone nel mondo che muoiono a causa di innumerevoli guerre, senza accusare l’inutilità di questi scontri, senza accusare la negligenza di coloro che, con poco, potrebbero fare tanto per migliorare questa situazione.
Se vengono trasmesse un sacco di notizie irrilevanti (a partire dai dieci minuti abbondanti dedicati al calcio in ogni telegiornale) significa che le notizie veramente importanti sono “scomode”: la gente non deve venire a conoscenza di certi fatti, in modo che non possa lamentarsi. Ma se ciò viene considerato “libertà di stampa”, allora ho bisogno di qualcuno che mi spieghi meglio il concetto di libertà.

NO ALLA LEGGE BAVAGLIO

martedì 13 luglio 2010

Agata e Pietra Nera

Cari lettori, ho appena "divorato" un breve romanzo intitolato "Agata e Pietra Nera" della scrittrice Ursula K. Le Guin (autrice anche della meravigliosa saga di Earthsea). Il libro affronta un tema delicato, spesso argomento di discussioni in campo psicologico: puo' esistere solo amicizia fra uomo e donna?
La storia è quella di Owen e Natalie, un ragazzo e una ragazza che si possono definire fuori dagli schemi, poichè coltivano interessi speciali e di conseguenza sono inevitabilmente esclusi dal "gruppo". L'amicizia che nasce fra loro è un sentimento puro: in qualche modo l'uno ha bisogno dell'altra. Ma questo rapporto è destinato ad evolversi in qualcosa di più profondo...

Vi lascio le frasi più belle =)

"Decidemmo che non ha senso chiedersi qual è il significato della vita, perchè la vita non è una risposta, la vita è una domanda, e tu, proprio tu, sei la risposta."


"Non mi era mai venuto in mente prima che la musica e il pensiero si assomgliassero tanto. In effetti si potrebbe dire che la musica è una altro genere di pensiero, o forse che il pensiero è un altro genere di musica."


"Io dissi che era un po' come Einstein, che faceva tutto con una matita, un po' di carta e la sua testa, invece di un acceleratore da cinquanta milioni di dollari; gli acceleratori sono stupendi, ma sostanzialmente Einstein era ancora più stupendo, e assai più economico."

lunedì 12 luglio 2010

Lacrime afghane

Ho da poco finito di leggere "Il cacciatore di aquiloni" di Khaled Hosseini. Il romanzo è un capolavoro e consiglio a tutti la lettura!

Gli aquiloni non volano più nel cielo di Kabul da ormai trent’anni. L’Afghanistan, famoso per la fierezza dei suoi abitanti, conosce ora solo paura, morte e povertà: la luce negli occhi degli afghani è sempre più debole.
I più fortunati sono riusciti a scappare in America e Amir è uno di questi, ma la sua vita non è serena: il suo passato reclama giustizia e con esso riaffiorano il rimorso e il senso di colpa. Dal lontano giorno in cui Amir ha abbandonato l’amico Hassan, il cacciatore di aquiloni, nel momento in cui più avrebbe avuto bisogno del suo aiuto, le loro vite hanno preso inevitabilmente strade diverse. Ma per Amir è arrivato il momento di espiare le proprie colpe e per farlo deve tornare a Kabul, una città che si rivela sconosciuta e pericolosa ai suoi occhi, stravolta dalla guerra e dalla miseria. In più lo aspettano alcune sconcertanti rivelazioni…
E’ l’Afghanistan come non l’avevamo mai visto prima, visto da vicino, vissuto in prima persona a partire dall’infanzia di Amir e Hassan quando “non era ancora nata la generazione di bambini afghani le cui orecchie non avrebbero conosciuto altro che il rumore di bombe e cannoni”. E mentre i due bambini crescono, assistiamo con paura e tristezza alla progressiva rovina del Paese, l’incombere della guerra, la diffusione dell’ingiustizia.
Pochi scrittori riescono a toccare il cuore come Khaled Hosseini, che ci fa dono di questo romanzo tanto bello quanto straziante: la profonda introspezione dei personaggi, che trasmette ai lettori forti emozioni, è unita ad uno stile raffinato, ricco di suggestione e atmosfera.
Dal best-seller internazionale è stato tratto un film omonimo, uscito nel 2007 e diretto da Marc Forster.

 
 











(a sinistra: la copertina del libro; a destra: fotografia realizzata dall'esercito degli Stati Uniti)

sabato 10 luglio 2010

Quando la violenza diventa "normale"

La progressiva e veloce diffusione dei computer in tutte le case ha portato con sé una parallela diffusione dei videogames, apprezzati principalmente dai più giovani. In particolare hanno avuto il maggior successo, i giochi cosiddetti “violenti” e “di guerra”.
In un mondo dove di certo la violenza non manca e, sotto diverse forme, colpisce persone di tutti i Paesi, è necessario chiedersi il perché di questa popolarità dei videogiochi di guerra.
Innanzitutto si è sviluppata in questi ultimi anni la tendenza di condurre una vita sempre più virtuale, lontana dalla realtà che ci circonda. I bambini, soprattutto, e i ragazzi in età pre-adolescenziale preferiscono allontanarsi dal mondo reale attraverso i videogiochi; i ragazzi e le ragazze un po’ più grandi, sono invece sempre di più attirati dai social network e dalle chat. Dunque, nel proprio “universo virtuale” si possono creare degli alter-ego che hanno tutte le qualità desiderate: nello specifico, nei giochi di guerra è possibile impersonare eroi, formidabili combattenti o generali super-intelligenti che fanno sentire invincibili e danno un’inebriante, ma pericolosa sensazione di potere. Proprio questa infatti viene definita, dallo scrittore Alessandro Baricco, la “micidiale bellezza della guerra”: una perfetta occasione per dimostrare il proprio valore e le proprie capacità.
I videogiochi violenti sono inoltre utilizzati, inconsapevolmente, come sfogo ai problemi della vita di tutti i giorni. Per quanto riguarda i giovani, questi problemi possono essere legati alla scuola, alla situazione familiare, ai più o meno difficili rapporti sociali.
Per esempio, i ragazzi che subiscono violenze da coetanei potrebbero vedere (inconsciamente) nei nemici del videogame i propri assalitori della realtà: in questo caso "combattere" diventa uno sfogo e un desiderio di vendetta. Può capitare invece che i giovani con difficoltà a scuola, trascurino lo studio ("tanto è inutile", "tanto non ci riesco") per immergersi in impegnativi giochi virtuali. Provando e riprovando i livelli sempre più difficili riusciranno a completare la missione, allora sentiranno di aver realizzato qualcosa, di essere bravi almeno in quello. Inoltre, gli adolescenti con genitori troppo presenti o troppo assenti, che litigano ogni giorno o separati, cercano di sfuggire ad una realtà che li opprime: l’uso della violenza virtuale è il loro modo di chiedere aiuto.
I videogiochi violenti dunque offrono ai giovani la possibilità di sentirsi migliori, ma è necessario riflettere su quanto effettivamente siano utili ai ragazzi e se non siano piuttosto dannosi in qualche modo. In questo campo sono state effettuate numerose ricerche che non hanno ancora fornito dati certi, ma che hanno evidenziato la tendenza ad una maggiore aggressività nei giovani che utilizzano videogiochi di guerra o di violenza in generale. Secondo i ricercatori dell’università di Iowa (USA), “i giochi violenti forse non inducono i giocatori a comportamenti aggressivi, ma li rendono comunque meno sensibili a filmati che presentano scene di violenza. In parole più semplici, i videogiochi violenti farebbero sembrare la violenza un po' più normale.”

giovedì 8 luglio 2010

Io..Io credo nella Filosofia

Agorà, il nuovo lungometraggio del regista spagnolo Alejandro Amenebàr (già conosciuto per "The Others" e "Mare dentro"), ci racconta im modo affascinante e toccante la triste storia di Ipazia di Alessandria che fu matematica, astronoma e filosofa greca.
Ipazia ha due grandi colpe: quella di essere donna e quella di aborrire qualunque fede in nome della conoscenza e della libertà di pensiero. Per questo, quando i Cristiani, guidati dal vescovo Cirillo, rappresentano ormai la maggioranza religiosa nella città, Ipazia viene accusata di stregoneria ed empietà e brutalmente uccisa da un gruppo di Parabolani.
Il fanatismo religioso viene in questo film messo a nudo e condannato, una sola e semplice frase di Ipazia dimostra infatti la brutalità e l'insensatezza degli scontri: "Sono più le cose che ci uniscono che quelle che ci dividono". Così mentre migliaia di persone continuano a vivere prigioniere di gabbie mentali, Ipazia muore libera.
Con l'aggiunta di un intreccio sentimentale (volto forse ad addolcire la vicenda) e l'uso d'inquadrature insolite ma efficaci, Amenebàr crea un film appassionante, che apre la mente.

(nelle foto: a sinistra il poster di Agorà, con l'attrice Rachel Weisz in primo piano, a destra "La morte di Ipazia" di  Charles William Mitchell)



mercoledì 7 luglio 2010

Il momento di lasciarli andare

Le persone non sono ancora capaci di considerare i propri figli come persone autonome, tant’è vero che una madre continua a chiamare “bambino” anche il figlio quarantenne.
Credo sia naturale per un genitore “attaccarsi” molto al figlio, perché il legame affettivo è forte e intimo; tuttavia, come spiegano molte filosofie orientali, il vero amore deve essere privo di ogni forma di “attaccamento”: se si ama veramente qualcuno, si deve essere pronti a lasciarlo andare per la propria strada.
Questo è un concetto che molti genitori non comprendono pienamente, anche se lo ripetono spesso (forse più a sé stessi che agli altri) per dimostrare di essere saggi e per rassicurarsi. Ma quando si avvicina il momento di cominciare a dare indipendenza ai figli, adolescenti in cerca di svago o già adulti in cerca di un futuro, arrivano la paura del distacco e il senso di responsabilità nei loro confronti. Così si tende sempre di più a rinviare questo passo fatidico, tenendo i figli sempre sotto la propria ala protettiva, soddisfacendo ogni loro necessità, ma allo stesso tempo negando loro la possibilità di affrontare da soli il mondo esterno.
D’altro canto questa graduale separazione può essere faticosa e dolorosa anche per i figli. Questo dipende dal tipo di rapporto che instaurano con i genitori e soprattutto dal tipo di educazione che ricevono. Finché si è bambini è naturale avere bisogno dei genitori come supporto e ci si sente perduti senza la loro presenza. E’ nel corso dell’adolescenza che cresce il bisogno di indipendenza, tuttavia contrastato dalla necessità di sicurezza data dai genitori. Nella vita di un adolescente infatti ci sono momenti in cui non si sente più il bisogno di un sostegno e si vorrebbe vivere da soli, affrontare con coraggio ogni nuova esperienza. Però ci sono anche momenti in cui ci si sente ancora piccoli e indifesi e sembra di non poter fare a meno dell’aiuto del genitore.
Detto questo, i genitori dovrebbero capire (o almeno sforzarsi di capire) “quanto aiuto” devono dare ai figli, per non rischiare di trascurarli e, nello stesso tempo, di viziarli. In entrambi i casi il rapporto genitore-figlio non sarebbe sereno e i figli avrebbero difficoltà nel riconoscersi indipendenti.
I figli, come dice Khalil Gibran, sono “viventi frecce” e i genitori gli archi. Ciò significa che il futuro dell’intera specie è nelle loro mani e il compito dei genitori è semplicemente quello di prepararli nel miglior modo per affrontare le sfide che incontreranno nel corso della vita, lasciando loro anche il diritto di sbagliare. Trattenerli a sé forzatamente significherebbe negare loro la possibilità di migliorare le proprie capacità e per estensione di migliorare le capacità dell’intera specie umana.
Per quanto riguarda il rapporto genitore-figlio, la gente, soprattutto in Italia, non è ancora pronta a riconoscerlo come un qualcosa di ampio, legato al fluire dell’esistenza. Da una parte ciò è dovuto alle tradizioni del Paese derivate dalla cultura giudaico-cristiana, dall’altra a una società caratterizzata fino a qualche decennio fa da una mentalità patriarcale, dove il capo-famiglia era anche il “padrone” materiale della moglie e dei figli, che dovevano uniformarsi alle sue decisioni. Anche se la società sta cambiando, la mentalità rimane influenzata dall’antico pensiero.
Inoltre, si può capire come la gente non abbia la concezione del fluire della vita, dal semplice fatto che il parlare della morte sia un tabù. Tutti cercano di evitare per scaramanzia questo argomento e ciò dimostra la mancanza di una visione più ampia della vita: la maggior parte delle persone non capisce che la morte è necessaria alla continuità della vita stessa.
L’acquisizione di questa consapevolezza in Italia è rallentata anche dalle scarse possibilità di lavoro e quindi di autosufficienza dei giovani, che tendono, sempre più spesso, a rimanere nella famiglia dei genitori anche in età adulta; ciò è un freno all’evoluzione e al ricambio generazionale.

martedì 6 luglio 2010

Saggezza orientale

E' arrivato il momento di parlar di libri! =)
Per cominciare vi consiglio un libro che mi ha davvero colpito il cuore e dal quale è stato tratto un film altrettanto bello. Opera dello scrittore francese Eric-Emmanuel Schmitt, il libro s'intitola "Monsieur Ibrahim e i fiori del Corano" e di seguito ne riporto una breve recensione scritta da me:
Da Parigi alla Turchia, questo libro ci porta in un viaggio dove nulla è scontato. La storia di Momo, sedici anni, abbandonato prima dalla madre e poi dal padre, è raccontata senza fretta perché, come dice Monsieur Ibrahim “la lentezza è il segreto della felicità”. L’amicizia fra il ragazzo costretto a crescere improvvisamente, e un vecchio, che dentro è ancora giovane, si trasforma ben presto in legame più forte. Parole semplici per esprimere concetti profondi: Schmitt, drammaturgo oltre che scrittore, ha creato un capolavoro di saggezza.
Il film omonimo tratto dal romanzo è uscito in Italia nel 2003, ma purtroppo non è stato ben pubblicizzato.
Il cast vede Omar Sharif nel ruolo di Monsier Ibrahim e Pierre Boulanger nel ruolo del giovane Momo, mentre la regia è di Francois Dupeyron.


Uguali, ma soli.

Mi è sempre piaciuto ascoltare i racconti dei miei genitori riguardo alla loro gioventù: cosa facevano, come si vestivano, che musica ascoltavano alla mia età. Così ho capito che il modo di essere giovani è cambiato durante il corso della storia così come è cambiato il modo di vivere delle persone.
Penso che essere giovani nel 2010 sia facile, anche troppo. Credo tuttavia che non sia l’adolescenza in sé a essere cambiata in questi ultimi venti o trent’anni: è cambiato il modo in cui viene vista, considerata, vissuta, dai ragazzi.
Pensare, riflettere sulla realtà che ci circonda, è sempre stato difficile per tutti, tanto più per noi adolescenti. Da qualche tempo a questa parte, però, si è sempre più consolidata fra i giovani l’idea di dover godersi la vita il più possibile: perché preoccuparsi di ciò che accade nel mondo? Ci sono i “grandi” per quello. Noi dobbiamo divertirci, finché possiamo.
Ma perché oggi i ragazzi (io mi escludo) non pensano più al loro futuro, non hanno stimoli ed entusiasmi?
I giovani non cercano più risposte alla vita e non si fanno domande esistenziali perché non ne hanno il tempo. Ci pensa la televisione, onnipresente, a tenerli occupati. La televisione dice loro cosa devono fare, cosa devono pensare, amare o disprezzare. E quando non c’è la televisione, ci sono i videogame o l’i-pod.
Questa tecnologia per ragazzi causa innanzitutto la progressiva perdita d’individualità. Per esperienza personale mi sono accorta e continuo a vedere ogni giorno che i giovani sono costantemente spinti, dai media (e di conseguenza dalla società), all’omologazione, così la loro più grande aspirazione è avere vestiti firmati e cellulari di ultimo modello.
Inoltre, mi capita spesso di vedere gruppi di ragazzi che si ritrovano in un luogo comune come l’ingresso di una scuola, il treno o l’autobus, e nove su dieci di loro parlano con gli altri con una cuffia di i-pod in un orecchio. Questo dimostra un bisogno, quasi patologico, di rumore che sovrasti i pensieri, le preoccupazioni di ogni genere.
Parallelamente, ascoltare la musica da un i-pod porta gradualmente all’isolamento. Una scena molto triste a cui assisto quotidianamente: un gruppo di studenti o studentesse pendolari in treno, amici o amiche di vecchia data, seduti vicini, ma in silenzio. Ma non in silenzio per rispettare gli altri viaggiatori. Tutti stanno in silenzio perché hanno le cuffie dell’i-pod nelle orecchie. Tutti vicini, tutti uguali, ma soli.
Questa realtà ha causato un sempre maggior disinteresse dei giovani ai perché dell’esistenza, ai problemi del mondo, ma anche ai problemi interiori, che vengono ignorati perché ci pensa qualcun altro a risolverli per loro. Gli adolescenti (per fortuna si salva qualcuno) sono ormai chiusi in un mondo costruito appositamente per loro, in cui tutto è facile e apparentemente divertente.

lunedì 5 luglio 2010

L'amicizia

L’amicizia è uno dei beni più preziosi che possiamo avere. Vale più di soldi, gioielli o belle macchine: tutte queste cose non danno la vera felicità, l’amicizia sì.
Con gli amici scherziamo, giochiamo, ridiamo fino ad avere mal di pancia, e non importa il dove o il quando, perché l’importante è l’essere insieme, condividere qualcosa. Infatti, qualunque attività è più divertente e interessante se la possiamo condividere con le persone a cui vogliamo bene. Possiamo guardare un film o ascoltare la musica da soli, ma con un amico potremo scambiarci pareri, commenti e scoprire particolari di cui non ci eravamo accorti; possiamo intraprendere un progetto da soli, ma con degli amici, aiutandoci a vicenda riusciremo sicuramente ad ottenere risultati migliori; possiamo cenare da soli in casa, ma una serata in pizzeria con gli amici è mille volte più divertente: anche la pizza è più buona del solito.
Per di più gli amici ci aiutano a migliorare, perché quando ci confrontiamo con loro, entro i giusti limiti, scopriamo nuove parti di noi stessi che svilupperemo se sono positive o correggeremo se sono negative, proprio come dice il sociologo Francesco Alberoni in un suo importante saggio: “Ciascuno aiuta l’altro a scoprire ciò che per lui è essenziale e ad andargli di un passo più vicino”.
Inoltre tra le varie persone che definiamo amici, pur avendo con tutte buoni rapporti, possiamo avere la fortuna di trovare un vero amico. Un vero amico è una persona di cui ci possiamo fidare ciecamente, una persona che sappiamo non ci tradirà mai. Un vero amico ci aiuta quando siamo in difficoltà, non per avere qualcosa in cambio: semplicemente perché ci vuole bene. Con lui ci sentiamo sempre a nostro agio e diamo sempre il meglio di noi per renderlo felice. Tuttavia non è detto che abbia gli stessi nostri interessi o qualità, anzi spesso il rapporto è migliore quando ci si completa a vicenda.
Purtroppo i veri amici sono veramente pochi e non è detto che tutti siano così fortunati da averne almeno uno. Infatti trovare le persone che non ci abbandoneranno mai è molto difficile, ma ciò non vuol dire che non si possano passare comunque momenti piacevoli anche con altre persone con cui siamo meno in confidenza, per esempio i compagni di scuola, i colleghi, i vicini di casa. Se una persona cerca la nostra compagnia non dobbiamo disdegnarla o rifiutarla solo perché non è nel nostro “gruppo”: magari è l’occasione giusta per scoprire di essere in totale sintonia! In questo caso avviene ciò che Francesco Alberoni chiama incontro: “Un momento in cui noi proviamo un forte moto di simpatia, un interesse, sentiamo un affinità verso una persona. […] L’incontro è sempre inatteso, rivelatore”.
Nella vita può capitare anche di fare incontri sbagliati, persone che si fingono nostre amiche solo per secondi fini, ma questa non è una buona ragione per isolarsi dagli altri. E’ sbagliato innanzitutto perché se non diamo mai fiducia a nessuno non potremo mai pretendere che qualcuno si fidi di noi, in secondo luogo conducendo un’esistenza solitaria, senza poter contare sull’aiuto di nessuno, qualunque impresa diventa molto difficile.
Inoltre coltivare l’amicizia richiede tempo, disponibilità e sacrifici: per avere buoni amici, bisogna anche saper essere buoni amici. E’ difficile, questo è vero, ma l’amicizia dà gratificazioni che compensano ampiamente i sacrifici fatti. Si dice che a fare del bene, questo torna indietro dieci volte maggiore.
Per questi motivi si può affermare che l’amicizia è davvero importante e vale veramente la pena fare qualche sacrificio, mettendo da parte l’egoismo, per essere amati dagli altri. L’amicizia è una ricchezza, una vera ricchezza, che rende più saggi e più felici.

domenica 4 luglio 2010

In punta di piedi

Cari lettori, come primo intervento nel mio neo-blog voglio proporvi un breve racconto autobiografico che ho scritto quando avevo dodici anni. L'ho ritrovato per caso, mettendo in ordine vecchie carte e nel rileggerlo mi sono commossa. Ho deciso di lasciare il testo inalterato poichè nella sua semplicità trasmette tante emozioni e conserva teneri ricordi.

“ In punta di piedi ”

Un giorno i miei genitori mi hanno portato in palestra dove si
teneva un corso di danza classica e mi hanno detto: “ Vuoi provare? ”
Io mi vergognavo moltissimo e ho risposto di no, però loro hanno
insistito dicendo che se proprio non mi fosse piaciuto, non ero obbligata
a farlo.
Devo proprio ringraziarli per avermi fatto scoprire una delle cose che
mi gratifica di più nella vita.
Per me la danza è come volare: la melodia della musica mi guida
 e mi coinvolge nel suo ritmo, avvolgendomi come in un sogno.
É una sensazione stupenda riconoscere le voci degli strumenti musicali
che cantano in armonia e lasciarsi trasportare, come volando sulle
note della melodia.
Non basta il sentimento: occorre molta disciplina e allenamento
perché durante la danza, una ballerina deve saper esprimere col
corpo, le sensazioni che la musica e la coreografia stessa cercano di
comunicare al pubblico, eseguendo i movimenti con perfezione.
 Ciò che amo di più è esibirmi in uno spettacolo.
Dopo tante prove e allenamenti, quando si avvicina il giorno del
saggio, la tensione va via via crescendo fino all’ultimo momento: quando
entri sul palcoscenico.
Allora il tempo sembra fermarsi, come se il mondo intero trattenesse il
respiro; subito dopo la musica prende il sopravvento, la mente si
vuota e parte la danza.
La musica si ferma, anche noi ci fermiamo nella posa finale e improvvisamente
il pubblico batte le mani: una sensazione di orgoglio e fierezza mi riempie,
 perché gli applausi di un pubblico caloroso, sono la miglior gratificazione
che una ballerina può desiderare.
Ballare in un gruppo è bello, ma anche molto difficile: è necessaria
una coordinazione perfetta e una buona organizzazione, ma
soprattutto la direzione di una insegnante e coreografa preparata.
Ballare come solista è forse ancor più difficile, forse perché si è
soli ad affrontare tutto il pubblico; arriva però anche il giorno in
cui qualcuno ti chiede di esibirti: a me è successo all’età di otto anni.
Alla scuola elementare, la mia maestra di musica, mi propose di
esibirmi in un balletto come solista, in occasione dello spettacolo di
fine anno. Prima di decidere, ho riflettuto molto e ne ho parlato
con la mia insegnante di danza: con il suo aiuto ho preparato una
breve coreografia.
La mia performance è riuscita benissimo, il pubblico ha applaudito a
lungo, in special modo i compagni della mia classe, che non avevano
mai visto una mia esibizione.
In quel momento avevo realizzato il mio sogno, e da quella sera ho
capito che non avrei mai smesso di danzare…