lunedì 23 maggio 2011

S'io avessi le rime...


Ciao a tutti, carissimi lettori!
Oggi posso finalmente pubblicare, nel mio modesto angolino di web, il tema con il quale mi sono guadagnata il secondo posto in classifica del concorso dantesco "Prof. Lia Leonardi Castellari" indetto dal mio liceo (il mitico Liceo classico Torricelli con sezione scientifica annessa e sezioni sociopedagogica e linguistica che non se le fila mai nessuno) e riservato ai soli studenti interni. Il concorso, come scritto nel regolamento, «intende promuovere il ricordo della Prof. Lia Leonardi Castellari attraverso lo studio e la conoscenza della figura e delle opere di Dante Alighieri con particolare riguardo alla Divina Commedia.»
Di seguito, in corsivo, la citazione che costituiva una delle tracce proposte.

«[…] Nato in una famiglia di piccola nobiltà […] anima cavalleresca in un ambiente borghese, egli non ha alcuna simpatia per questa società […], disprezza l’avidità del guadagno, il lusso grossolano, la dissoluzione delle famiglie, la corruzione dei costumi […].
La nobiltà feudale, di cui Dante rimpiange lo sfacelo, è la nobiltà ideale dei romanzi cavallereschi, che combatte ovunque per la difesa dei deboli e per il regno della giustizia.»
Gaetano Salvemini


Anno Domini 1265: Firenze, capoluogo della cultura nord-italica devastata da pesanti conflitti, politici e sociali, all’interno delle sue stesse mura, diventa terra natia del poeta italiano più conosciuto al mondo, il «Sommo» Dante Alighieri.
Proveniente da una famiglia della piccola nobiltà, Dante si dedica fin da giovanissimo agli studi letterari, avvicinandosi presto ai canoni cortesi e allo Stil Novo, sotto l’influenza dell’amico Guido Cavalcanti. Fondamentale è l’incontro con Beatrice, la «gentilissima», simbolo di salvezza e fonte di un amore puro e altissimo, la cui figura idealizzata sarà centrale nella ricca produzione dantesca.
Non meno importante è la partecipazione alla vita politica della città, alla quale egli si sente profondamente legato. Guelfo di fazione bianca, Dante raggiunge la carica di priore, posizione che gli consente per qualche tempo di mantenere un certo equilibrio nel governo della città. Tuttavia, a causa del crescente potere dei Ghibellini, viene condannato all’esilio nel 1302 e non farà mai più ritorno alla sua città natale. Le peregrinazioni attraverso le terre del Nord Italia e le soste nelle varie corti contribuiscono alla diffusione della sua fama e quando muore nel 1321 a Ravenna presso la corte dei Da Polenta, è ormai conosciuto in tutta la penisola e non solo.
È bene ricordare che la società del periodo e dell’ambiente in cui vive Dante è in progressiva trasformazione: i valori della nobiltà feudale vanno incontro ad un inevitabile sgretolamento per lasciare il posto ai nuovi modelli della borghesia, classe sociale di crescente potenza economica e politica. Ma il Sommo Poeta non accoglie il cambiamento, restando tenacemente attaccato all’idea di un potere universale come unica soluzione per risanare una società, ai suoi occhi corrotta e degradata. Considerazioni che si ritrovano inizialmente nella Monarchia, importante trattato dantesco sulla politica, ma in seguito riprese anche nella Commedia, seppur nascoste da allegorie ed eleganti metafore.
La Commedia infatti nasce proprio da una visione utopistica di Dante, dal desiderio di rigenerazione di un’umanità che si è persa in una «selva oscura». Dante, immaginandosi protagonista di un percorso di espiazione, dall’orrore dell’Inferno alla gloriosa redenzione del Paradiso, si pone come il terzo uomo che, dopo Enea e San Paolo, abbia mai compiuto, da vivo, un viaggio nell’Aldilà. Egli tuttavia non impersona solo se stesso, ma anche tutta l’umanità, di cui si considera salvatore, incaricato direttamente da Dio.
Le prime tracce della condanna alla società sua contemporanea sono evidenti già nel I° Canto della cantica dell’Inferno, che fa da introduzione all’intera opera. Dante, appena uscito dalla selva del peccato, viene ostacolato dalle tre «fiere», la lonza che simboleggia la lussuria, il leone, allegoria della superbia e la lupa, simbolo dell’avidità. Questi tre peccati, secondo il poeta, sono la fonte del deterioramento morale della società e l’arrivo provvidenziale di Virgilio, guida di Dante nella discesa all’Inferno e nella salita del Purgatorio, sembra indicare che la Ragione (di cui il poeta latino è allegoria) sia l’unico mezzo per raggiungere la salvezza.
La cantica dell’Inferno è naturalmente la parte della Commedia in cui è maggiormente evidenziata la critica al mal costume. Quale miglior modo, infatti, per condannare la corruzione morale, se non quello di ammonire i lettori con truci descrizioni delle pene infernali? Così, troviamo i golosi colpiti incessantemente da una pioggia terribile, gli avari e i prodighi costretti a trascinare massi pesantissimi, i violenti immersi in un fiume di sangue bollente, i fraudolenti puniti nei modi più svariati e infine i traditori, nel più profondo dell’Inferno, sono torturati dalla presenza di Lucifero.
Nonostante ciò, Dante inserisce nella cantica dell’Inferno anche personaggi per cui nutre un profondo rispetto: ne sono esempio le figure di Farinata degli Uberti, avversario politico del poeta, ma «che aveva l’inferno a gran dispitto»; del mitico Ulisse, l’uomo «dal multiforme ingegno» che non era riuscito a frenare la sua sete di conoscenza; del maestro Brunetto Latini, che proclamava un sapere troppo laico.
Ma vi è un particolare episodio che dimostra il legame di Dante e la sua stima nei confronti dei valori cavallereschi, ovvero la storia del tragico amore di Paolo e Francesca presentata nel V° Canto dell’Inferno. Le anime dei due giovani, travolte costantemente da una bufera, sono insieme anche dopo la morte, come testimonianza del sentimento profondo che li ha uniti in vita. Pur essendo il loro un amore adultero, Dante lo valorizza come un amore nobilissimo «che al cor gentil ratto s’apprende», essendo nato grazie alla letteratura. Come infatti racconta la stessa Francesca al poeta, lei e Paolo si sono innamorati leggendo insieme il romanzo cavalleresco Lancillotto e Ginevra: per loro «Galeotto fu il libro e chi lo scrisse».
Risulta, in conclusione, significativa la definizione di Dante come «anima cavalleresca in un ambiente borghese» proposta dallo storico Gaetano Salvemini, in quanto il Sommo Poeta, nonostante la grandezza e il valore indiscutibile delle sue opere, presenta una mentalità molto chiusa e diffidente nei confronti delle trasformazioni sociali dell’epoca in cui vive.

1 commento:

  1. Il Saggio (mah... ho dei dubbi)23 maggio 2011 alle ore 21:16

    Non male... mi aspettavo di più da te però... Dai, scherzo, mi piace molto, in particolar modo trovo molto interessante vedere come colleghi gli argomenti l'uno all'altro, è questo, secondo me, che ti dà quell'arma in più...

    RispondiElimina