martedì 17 gennaio 2012

Shame

Difficile non essere incuriositi da un film che ha fatto tanto parlare di sé, ancor prima di essere presentato al grande pubblico. Osannato dalla critica di Venezia e condannato aspramente dai moralisti più accaniti, Shame ha catturato l'attenzione di potenziali e sfortunati spettatori con la pretesa di essere il film dell'anno. Se la classifica fosse stabilita in termini di noia e monotonia, senz'altro Steve McQueen potrebbe vincere l'Oscar. Perché questa è la sensazione con la quale si esce dalla sala: Shame è fondamentalmente un film noioso.
Brandon (Michael Fassbender) - trentenne newyorkese dell'alta borghesia - è malato di una certa dipendenza dal sesso che condiziona la sua vita e le sue relazioni. Sua sorella Sissi (Carey Mulligan) è preda di una profonda insicurezza che la porta quasi al suicidio. Il rapporto tra i fratelli è segnato da un trauma infantile a cui si allude solamente. Date queste premesse - pensiamo - si svilupperà sicuramente una storia profonda, a tratti commovente, con molti spunti di riflessione. 
Davvero un peccato sprecare un'idea che apre molte strade con un film di tale banalità. Il protagonista viene presentato senza alcuna introspezione psicologica - forse il regista era troppo occupato a pensare quante volte sarebbe stato opportuno farlo entrare in scena nudo. Sissi, trascurata e depressa, è ovviamente l'aiutante della favola, la vittima buona che magicamente rompe la maledizione di cui è prigioniero il fratello. E come? Tentando di togliersi la vita naturalmente. Visto e rivisto. 
Ma soffermiamoci anche sulle famose scene hard che hanno suscitato tanto scalpore. In un film che parla di sessodipendenza non ci si potrà certo aspettare di vedere api e fiorellini. E' inutile continuare a fare i falsi moralisti, è inutile continuare a vergognarsi di ciò che si fa. Non è questo di sicuro il motivo per cui Shame è una pellicola da bocciare. Chiaramente, le persone che si lasciano impressionare forse non approveranno l'insistenza del regista su questo tema, ma d'altra parte è di questo che il film tratta.
Arriviamo quindi al punto saliente della critica: la durata delle scene. Interminabili sequenze in cui fondamentalmente non accade nulla di significativo. Una Mulligan super-truccata si esibisce (senza nulla togliere alle sue doti canore) per quasi due minuti di orologio in un brano comprendente all'incirca quattro diversi vocaboli. Un atletico Fassbender in tuta e scarpe ginniche ci accompagna in un improbabile tour notturno di New York per un tempo incalcolabile. E tutto questo senza aver accennato alle innumerevoli scene di sesso che, più che vergogna e scandalo, provocano un senso di pesantezza e fastidio.
E' necessario liberarsi di questo falso mito del film impegnato che deve essere necessariamente caratterizzato dall'assenza di azione e dal prolungamento eccessivo delle scene. Si nota addirittura, a volte, una certa presunzione, un voler ostentare le proprie (discutibili) capacità da parte di alcuni registi. Intellettuali che vogliono realizzare film ermetici, dalla difficile compresione e interpretazione per - questa la loro motivazione - spronare la gente a riflettere su questioni filosofiche, psicologiche, sociali. Ma viene invece da pensare se non sia piuttosto un modo per nascondere la propria inadeguatezza, la propria mancanza di originalità. Generalmente parlando, ovviamente.
Come concludere, dunque, dopo questa parentesi di riflessione? Non è necessario aggiungere altro, se non il sincero consiglio di evitare questo film pesante come un mattone.