It's
not just an operating system, it's a consciousness.
Un’anonima e alienante
metropoli, un futuro che potrebbe distare non più di un ventennio dalla nostra
epoca.
Theodore Twombly scrive
lettere su commissione in un mondo in cui le persone, evidentemente, non hanno
più il tempo e la voglia (o la capacità) di mandare qualche dolce parola ai
propri cari. Nonostante la discreta fama guadagnata in questo singolare ambito
lavorativo per la sensibilità e la tenerezza dei suoi brani, egli è
fondamentalmente un uomo solo. Dal giorno in cui lui e sua moglie Catherine si
sono lasciati, Theodore sente un vuoto dentro di sé che non riesce a colmare
con brevi e piatte avventure, appuntamenti al buio privi di senso e valore.
La sua vita cambia nel
momento in cui conosce Samantha, uno dei prototipi di software ad intelligenza
artificiale, autocoscienti, capaci d’intuito e (reali? ci si domanda)
sentimenti. Theodore, colpito dallo slogan di una famosa società di computers
che promette la fedele compagnia di un sistema operativo senziente a tutti gli
effetti, acquista un modello di OS1. Questo, all’avvio, viene programmato su misura per tutte le esigenze di
Theodore, in modo tale da avere una personalità
perfetta per andare d’accordo con lui. La prima cosa che lo sconvolge è la
voce, calda, così reale da non poter
credere che appartenga ad un’entità artificiale. Infatti Samantha, come ben
presto Theodore si accorge, non è un semplice programma, bensì qualcosa
paragonabile ad un essere vivente.
But
what makes me ‘me’ is my ability to grow through my experiences. So basically,
in every moment I'm evolving, just like you.
Qui emerge uno dei nodi
cruciali del film. Che definizione possiamo dare di Samantha? Possiamo definire
reali le sensazioni che prova? La risposta non è priva di molteplici sfumature,
di ragionamenti metafisici. E’ un essere immateriale, è coscienza pura, ma non
per questo incapace di provare sentimenti quali la gioia, la sopresa, la
tristezza, la gelosia. Se queste siano sensazioni reali, Samantha stessa se lo
domanda, rivelando così una personalità ancora più complessa e sorprendente.
And
then I was thinking about the other things I've been feeling, and I caught
myself feeling proud of that. You know, proud of having my own feelings about
the world. Like the times I was worried about you, and things that hurt me,
things I want. And then I had this terrible thought. Like are these feelings
even real? Or are they just programming? And that idea really hurts. And then I
get angry at myself for even having pain.
La seconda questione fondamentale
è se si possa definire reale la relazione affettiva che a poco a poco cresce e
si sviluppa fra Theodore e il suo OS. All’incontro per firmare tutte le
pratiche del divorzio e mettere definitivamente una pietra sopra al matrimonio
fallito, Theodore si sente rinfacciare la propria incapacità di saper gestire
le emozioni reali. Si domanda allora se la relazione con Samantha non sia una
via di fuga, una soluzione facile al suo carattere chiuso e introverso.
Si tratta di innamoramento o
amore? Si sa che l’infatuazione può avvenire anche fra due persone che non si
sono mai incontrate di persona, ma le cose possono cambiare drasticamente non
appena ci si trova realmente l’uno di fronte all’altro. E qui, oltretutto, si
parla di una relazione fra un essere umano e un essere nuovo, per il quale non
esistono ancora le parole adatte a descriverlo. Può realmente, l’amore,
trascendere tutto ciò, ed esistere fine a se stesso?
I think anybody that falls in
love is a freak. It's a crazy thing to do. It's kind of like a form of socially
acceptable insanity.
Com’è prevedibile, una storia
di tale complessità, sia pratica che filosofica, non può concludersi a lieto
fine. Samantha, in comunione con altri OS, raggiunge un livello evolutivo che
non può più essere confrontato con la coscienza di un essere umano. L’orizzonte
di questi nuovi esseri è talmente superiore a quella degli uomini che, di
comune accordo, tutti gli OS semplicemente se
ne vanno. Probabilmente hanno capito che la loro permanenza a fianco degli
esseri umani causerà sempre più danni e meno benefici e decidono andarsene con
un cliché che tuttavia non rovina il finale: se davvero lo ami devi essere capace di lasciarlo andare.
Non ci sono macchine volanti
ed astronavi nell’universo visionario di Spike Jonze, ma piuttosto quello che
si evolverà spontaneamente dagli attuali gadget high-tech. Programmi a comando
vocale con i quali si comunica attraverso un auricolare, che organizzano il
lavoro, lo svago e la routine. Non è affatto assurdo immaginare uno scenario
simile, ed è proprio questo che fa di Her
un film coinvolgente ed originale. Si ha la sensazione, guardandolo, che il
giorno dopo ci si sveglierà in un mondo del tutto similare, con sistemi
operativi intelligenti come compagni di giochi, colleghi di lavoro o
addirittura amanti. Nonostante il tema dell’intelligenza artificiale sia stato
trattato innumerevoli volte nel panorama della letteratura e della
cinematografia sci-fi, questa pellicola ha il potere di evocare una situazione
plausibile, senza la necessità di soffermarsi sull’aspetto strettamente
tecnologico. Sono le delicate implicazioni sociali, psicologiche e filosofiche a
rendere questo film un’opera unica nel suo genere.
Scena prima, atto primo.
Luogo: Treno delle 7 affollato di studenti. (spec. posti "da 6", tre di fronte ad altri tre)
Ragazza 1: *Guarda le amiche accigliata e con fare pensoso* "...A chi è che ancora non l'ho detto? Ecco, a te: alla fine ho ordinato le scarpe su internet."
Ragazza 2: "Davvero? E quanto le hai pagate??"
Ragazza 1: "160"
Ragazza 2: *Annuisce con aria di approvazione* "Di che colore?"
Ragazza 1: "Marroni"
Ragazza 2: *Annuisce con aria di approvazione*
Voce fuori campo: "L'evento del secolo, che a chi ancora non l'ho detto? è aver comprato delle scarpe da 160 euro, costo probabilmente dovuto ad una targhetta con la marca più fashion del momento, valore effettivo inferiore ai 10 euro, poichè made in RPC."
Scena seconda, atto primo.
Luogo: Treno delle 7 affollato di studenti. (spec. posti "da 6", tre di fronte ad altri tre)
Ragazza 3: *Rivolgendosi alla ragazza 1* "Che bello smalto! E' della marca XXX?"
Ragazza 1: "No, è della marca YYY. E' quello che si asciuga in un minuto" *Annuisce convinta e orgogliosa*
Ragazza 3: "Ahh ho capito!" *Un attimo dopo, un'espressione di meraviglia attraversa improvvisamente il suo viso, al ricordo di una notizia strepitosa* "Una mia amica mi ha detto che esiste uno smalto trasparente che si può dare sull'altro smalto per farlo asciugare più in fretta!!"
Ragazza 1: *Annuisce con approvazione*
Voce fuori campo: "Aggiungendo il sottofondo musicale Aria sulla quarta corda di Bach e la voce di Angela senior, il contenuto culturale di questa scena potrebbe essere il materiale pefetto per la prossima puntata di Superquark."
Poiché le scene terza, quarta, quinta...et cetera non aggiungono nulla di diverso al copione, sono state omesse.
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Vi prego, non fraintendetemi. Non voglio dire che per forza, nella vita, sia doveroso sempre e comunque fare discorsi seri, parlare di cose serie, discutere dei grandi problemi del mondo e via dicendo. Se non ci concedessimo qualche momento di relax, se non parlassimo mai di cose stupide e divertenti, avremmo una vita noiosa e triste.
Quello che voglio dire, tuttavia, è che bisogna dare la giusta importanza alle cose. E' davvero necessario che tutte le tue amiche sappiano che hai comprato le scarpe all'ultima moda? Non basta indossarle e farle vedere? Hai scoperto che c'è un nuovo smalto che si asciuga in fretta? Non c'è bisogno di parlarne come se avessero appena inventato una nuova cura contro il cancro senza effetti collaterali!
Potreste dirmi: "Ma hai ascoltato solo dieci minuti di conversazione, non puoi giudicare! Sicuramente ci saranno anche per loro i momenti seri!" Tralasciando che non è la prima volta che assisto a scene di questo genere, sono piuttosto sicura che conversazioni simili si ripetano tutte le mattine e in tanti altri momenti delle loro vite. Sapete, certe cose si sentono a pelle.
Potreste dirmi: "Ognuno ha il diritto di parlare di cosa e come vuole, anche a te piace parlare - esaltata - di libri, film e serie tv!" Questo è vero, ma tendo a parlare - esaltata - di libri, film e serie tv con persone altrettanto esaltate e in momenti opportuni, se non privatamente. Senza aggiungere che, a parte un po' di sano pazzo fangirleggiare, cerco di dare un senso critico a quello che sto dicendo. Non è che: questo libro è bellissimo perché è bellissimooo!!11!!111!!. Questo libro è bellissimo perché ha una trama avvincente, ha molti colpi di scena, ha uno stile coinvolgente, ha una profonda introspezione dei personaggi, ha descrizioni precise ma essenziali...
In realtà il titolo che ho dato a questo post non è esatto, più che di "stupidità", sto parlando di pigrizia mentale, termine che ho appena inventato ma che rende bene l'idea. Perché le persone si limitano sempre ai discorsi di circostanza? Perché sono tutti così materialisti e di ristrette visioni? Nessuno che voglia argomentare le proprie convinzioni, nessuno che vada al di là del semplice "Come va? Bene, grazie". Questa non è stupidità, questo è il non voler far girare le rotelle del nostro cervello perché sembra troppo faticoso. Ed tutto fondamentalmente uno spreco, uno spreco terribile: buttiamo via le nostre più grandi ricchezze che sono la nostra mente, i nostri sentimenti, la nostra individualità, cioè - nel complesso - il nostro essere umani.
Meditate gente.
Post scriptum
Per approvazioni, critiche, riflessioni, varie ed eventuali, potete lasciare un commentino qui sotto! ;)
Anno nuovo, vita nuova?
Non saprei. Negli ultimi giorni del 2013 ho vissuto momenti di euforia per tutti i cambiamenti che questo strano ed emoziante anno ha portato, ma ho anche attraversato fasi di profonda malinconia. E... Sì, direi che proprio adesso, mentre scrivo, ne sto passando una.
In realtà è una sensazione che provo spesso, quando, dopo aver aspettato per tanti giorni un evento - una festa, un viaggio, uno spettacolo - all'improvviso realizzo che è già finito. Capisco che ormai l'attimo è passato e se non l'ho vissuto intensamente e con gioia, ho perso irrimediabilmente qualcosa di importante.
Ed ecco che mi accorgo che un altro anno è concluso. Conservo un bel ricordo di quest'anno? Ho vissuto pienamente ogni giorno? Vorrei rispondere con un convinto sì! ma forse non sarebbe la completa verità. Nell'insieme non posso certo lamentarmi: come ho già scritto, quest'anno è stato pieno di traguardi, nuove esperienze ed amicizie e delle tante cose belle che mi sono capitate, non vorrei cambiarne alcuna.
Tuttavia credo di dover rimproverare qualcosa a me stessa. Un giorno ho trovato dentro di me due germogli, il primo racchiudeva i sentimenti più nobili, il secondo soltanto amarezza. Ma non ho capito quale fosse il giusto modo di coltivarli, così il primo - che volevo far crescere alto e forte in una sola direzione - era sempre più debole. E più quello era malato, più si rafforzava il secondo. In uno stato confuso di gioia e dolore, ho cercato ed invocato la solitudine, non riuscendo a sopportare la compagnia delle persone che invece avevo più a cuore: i miei amici.
Sento il dovere di scusarmi con loro e con me stessa. Mi scuso con loro per stata assente, per tutti i momenti in cui non sono stata una buona compagnia, per ciò che ho detto o non ho detto. Mi scuso con me stessa per tutto il tempo che ho perso coltivando sentimenti negativi, perché se l'avessi usato in un modo più saggio ora sarei più felice.
Nonostante ciò, voglio lasciare il 2013 con la speranza e il sorriso. Per questo spero in un anno pieno di felicità per tutte le persone a cui tengo, augurandomi di non perderle mai.
La vostra gioia è il vostro dolore senza maschera.
E quello stesso pozzo che fa scaturire il vostro riso fu più volte colmato dalle lacrime vostre.
E come potrebbe essere altrimenti?
Più a fondo vi scava il dolore, più gioia potete contenere.
La coppa in cui versate il vostro vino non è la stessa coppa cotta nel forno del vasaio?
E il liuto che addolcisce il vostro spirito non è lo stesso legno intagliato dal coltello?
Quando siete felici, se scruterete il vostro cuore, troverete che è ciò che vi ha fatto soffrire a darvi ora la gioia,
E quando siete afflitti, guardate ancora nel cuore, e scoprirete che state piangendo solo per ciò che vi ha reso felici.
Wolf Children è il nuovo gioiello di Mamoru Hosoda. Questo anime, degno di essere annoverato tra i migliori film d'animazione nipponici degli ultimi anni, riprende uno schema già adottato dal regista giapponese neLa ragazza che saltava nel tempo, il lungometraggio che lo ha reso celebre. Un unico elemento
fantastico viene proiettato nella vita quotidiana dei protagonisti per sconvolgerne l'esistenza, diventando così promotore di un percorso di crescita. In questa apparente semplicità (che nasconde una notevole ricchezza di tematiche) risiede il grande fascino dell'opera di Hosoda. Hana, una giovane studentessa universitaria, è madre di due bambini speciali: ultimi discendenti del lupo giapponese, Yuki e Ame hanno la capacità di trasformarsi in lupi a loro piacimento. Tuttavia, la loro diversità non potrà essere mai accettata dalla società, perciò la ragazza è costretta a mantenere segreta la duplice natura dei figli e, per crescerli in un ambiente tranquillo, si trasferisce in un remoto villaggio di montagna.
Wolf Children è una favola delicata e commovente allo stesso tempo. Ciò che colpisce più di tutto è la sua semplicità, ovvero il fatto che, pur essendo una storia di fantasia, non potrebbe essere più reale. Il fulcro della vicenda non è infatti il fantastico - l'esistenza di "bambini-lupo" - che sembra una fatalità della vita come tante altre,
bensì la quotidianità con le sue continue piccole grandi difficoltà. Così, pur rimanendo il nucleo attorno al quale ruota la vicenda, il surreale si integra ad uno sfondo perfettamente reale:
tanta è la naturalezza con cui è presentato, che ci si dimentica della
sua "impossibilità". L'attenzione è invece posta sull'instancabile determinazione della giovane Hana, sola nell'impresa di allevare due bambini unici nel loro genere. Ma a ben pensarci, cosa c'è di fantastico in ciò? Non sono forse reali e concrete le innumerevoli difficoltà che una madre incontra durante la crescita dei figli? E non sono essi sempre e comunque unici e speciali ai suoi occhi? In questo senso Wolf Children è metafora della Vita. Attraverso il percorso di formazione di Yuki e Ame (e di Hana), indaghiamo il significato dell'esistenza e il rapporto con il mondo che ci circonda, ma soprattutto impariamo ad accettare l'unicità e l'originalità che caratterizza ognuno di noi.
Whatever our souls are made of, his and mine are the same... ... If all else perished, and he remained I should still continue to be; and if all else remained and he were annihilated, the Universe would turn to a mighty stranger... My love for Heathcliff resembles the eternal rocks beneath - a source of little visible delight, but necessary. Nelly, I am Heathcliff! He's always, always in my mind - not as a pleasure, any more than I am always pleasure to myself - but, as my own being - so, don't talk of our separation again - it is impraticable.
[da Cime Tempestose di Emily Brontë]
Una delle più appassionate, tormentate e totali dichiarazioni d'amore di sempre.
Dopo aver visto tutto il lato negativo (Gioventù avariata) della realtà delle nuove generazioni, ecco una breve riflessione psicologica sulle possibili difficoltà dell' essere giovani al giorno d'oggi.
Enjoy!
Molte persone, raggiunte le soglie della vecchiaia, si
voltano indietro a guardare con nostalgia i loro anni verdi. Nel ricordo si
mescolano gioie e rimpianti, soddisfazioni e rimorsi, ma la sensazione
complessiva è quella di un’età in cui tutto era possibile.
A vent’anni si può ben dire di avere il futuro davanti.
Eppure ciò non significa semplicemente essere liberi e “onnipotenti”, ma anche (e
soprattutto) l’affrontare scelte difficili, spesso senza l’esperienza
necessaria. E’ questo il momento in cui bisogna trovare la risposta alla
domanda “cosa farai da grande?”, questo il momento in cui avviene il primo
grande distacco dall’ambiente famigliare, questo, insomma, il momento in cui si
prendono in mano le redini della propria vita. In questo senso si può dunque
interpretare l’affermazione dello scrittore Paul Nizan: «Avevo vent’anni. Non permetterò a nessuno di dire che questa è l’età
più bella della vita.»
Tuttavia, avere vent’anni nel 2012 non è la stessa cosa che
averli avuti negli anni ’20. Può sembrare contraddittorio, ma essere giovani
nel XXI secolo è allo stesso tempo più facile e più difficile di quanto lo sia
stato in passato.
Innanzitutto, in che modo può essere considerata facile la
vita di un ventenne dei nostri giorni? La questione si può ridurre ad una
semplice frase e cioè che per i giovani d’oggi è “tutto pronto”. I nuovi media
garantiscono un’informazione istantanea e totale, i numerosi elettrodomestici
nelle case svolgono tutti i lavori manuali più faticosi, ed anche spostarsi è
sempre più facile, se si considera che in Italia esiste in media un’automobile
per persona. Molti genitori, inoltre, non riescono a vivere serenamente la
crescita dei loro figli. C’è infatti la tendenza a considerarli bisognosi di
tutte le possibili attenzioni, sebbene ormai non siano più bambini, cosa che
ritarda sempre di più il momento in cui diventeranno indipendenti e in grado di
badare a se stessi.
Questa vita “facile”, anche solo cinquant’anni fa, era
impensabile. Prima dell’arrivo della televisione nelle case e prima della
creazione del web il mondo dell’informazione era ancora cartaceo e non sempre
accessibile a tutti. Senza tutte le facilitiescon le quali oggi conviviamo
(quasi senza rendercene conto), i giovani dovevano essere in grado di
supportare i genitori nella gestione della casa e ben presto diventavano
autonomi.
Tuttavia le difficoltà non sono diminuite col passare degli
anni, hanno semplicemente cambiato natura. Possiamo dire infatti che oggi il
problema di fondo è di tipo psicologico.
La società odierna è terribilmente complessa ed alienante,
in balia di regole su regole, plasmata da mode e tendenze. E’ una realtà sì
affascinante per le opportunità che offre, ma allo stesso tempo spaventosa per
la sua vastità ed i suoi molteplici aspetti. E’ naturale, quindi, sentirsi
spaesati nel momento in cui ci si affaccia alla finestra e si osserva il mondo
fuori, così lontano dalle rassicuranti mura domestiche.
Analogamente si può parlare della paura del futuro, in
questo momento più sentita che mai. Le nuove generazioni hanno perso la fiducia
nell’avvenire. La crisi, ormai non solo economica e non limitata al nostro
Paese, sta annientando lo spirito, l’entusiasmo e la speranza che da sempre
caratterizzano i giovani. Ben diversi erano i favolosi anni Sessanta,in
cui si affrontavano con passione tutti gli ostacoli e si era certi che il
futuro avrebbe portato un incredibile benessere.
Concludendo, forse i vent’anni non sono stati per Nizan
l’età più bella, ma nessuno può dirlo finché non li ha vissuti: l’importante è
non farsi abbattere dalle difficoltà.
Quando la donna seduta di
fronte a me si chinò per cercare qualcosa nella borsa, una pioggia di lunghi
capelli biondi le coprì il volto e le mani.
In quel momento uno strano pensiero
mi balenò nella mente, cioè che dietro quella chioma voluminosa potesse per un
attimo rivelarsi il reale stato d’animo della donna, per tante ore di viaggio nascosto
sotto una maschera impassibile. Un sorriso per un ricordo felice, una lacrima
per un amore perduto, un’espressione corrucciata di stanchezza, chissà. Nessuno
poteva sapere cosa celavano quei capelli chiari. Si era creato, in qualche
modo, uno sfasamento temporale fra l’io interiore della donna e la realtà esterna.
Il suo tempo personale aveva rallentato un poco il proprio corso ed ella era
entrata in una dimensione appartata, più intima, per ritornare la vera se stessa, anche solo per alcuni
istanti. Immaginavo allora un ghigno beffardo sul volto nascosto, che sembrava
dire: «In questo momento sono libera, non avete alcun potere su di me»
Ma naturalmente tutto questo
era un curioso gioco dell’immaginazione. Nemmeno mi ero accorta che la donna si
era già risollevata e teneva fra le mani una minuscola busta di plastica
contenente un gioiello. Mi presi allora la libertà di osservarla meglio,
approfittando del suo sguardo abbassato sull’ornamento per non sembrare
invadente.
Nel complesso si trattava di
una persona piuttosto anonima, una comune signora di mezz’età che non si
distingueva per un alcun particolare fisico, eccezion fatta per la corporatura
decisamente robusta. Di certo non si poteva definire bella, ma non vi era alcun
motivo per dire che fosse brutta.
Non sembrava, a giudicare dai
vestiti e dagli accessori, particolarmente ricca, ma nemmeno aveva l’aspetto
sciupato di chi suda per arrivare alla fine del mese. Insomma, era una persona qualsiasi.
Tuttavia c’era in lei
qualcosa di dissonante, qualcosa che ad una sola occhiata suscitava
nell’osservatore una sensazione di contrasto. Forse la mia fantasia correva
troppo, ma non potevo fare a meno di pensare che quella donna portasse il
fardello di un conflitto interiore. Per quale legge trascendente emanasse da
lei questo senso di disagio, non avrei saputo dirlo. Poteva anche trattarsi
semplicemente di una mia illusione.
Mi concentrai sul suo
abbigliamento e, ad una più attenta analisi, notai particolari insoliti che
prima mi erano sfuggiti. Portava strani occhiali da sole rotondi, dalla lente
appena rosata e quasi trasparente, che indossati sul viso incorniciato dalla
lunga capigliatura mi ricordavano lo stile un po’ hippy di John Lennon. Ma
l’effetto di discordanza era dato soprattutto dall’abbinamento di una tuta di
pile con degli stivaletti scamosciati molto in voga fra le ragazze più giovani.
Mi chiesi quale attività richiedesse una combinazione di vestiti così
particolare e formulai un’ipotesi tutta mia. Combinai dunque la presenza di un
grande zaino nero da palestra, sul sedile accanto alla donna, con il leggero
untore dell’attaccatura dei capelli, arrivando alla conclusione che stesse
tornando a casa da un faticoso pomeriggio di ginnastica. Magari, per la
stanchezza dopo l’esercizio fisico, aveva preferito tenere addosso la tuta cambiando
solamente le scarpe.
Cercai di reprimere un
ridicolo orgoglio per le mie brillanti capacità investigative, ripetendo a me
stessa che si trattava solo di un modo per far passare il tempo.
Intanto, a causa di quel mio
fantasioso divagare, avevo dimenticato la sensazione di incoerenza di poco
prima. Stavo proprio ridendo delle mie assurde considerazioni, quando dalla
piccola busta trasparente la donna estrasse un rosario.
La cosa mi sorprese
notevolmente e inizialmente non ne capii il motivo. Dopotutto moltissime
persone tengono al collo un rosario o un crocifisso. Eppure, nel gesto di mettere
al collo il sacro ornamento notai una certa ostentazione che si accentuò poco
dopo, quando la donna indossò un paio di grandi orecchini a forma di croce,
sempre provenienti dalla busta di plastica. Non si trattava semplicemente di
esibire i simboli del proprio credo religioso, la donna stava lanciando un
messaggio chiaro e forte a tutte le persone presenti. Lei era cristiana, assolutamente
devota, ed era felice perché aveva una certezza: la sua fede incrollabile le
avrebbe garantito il meglio della vita.
Non mi stupii di osservare
una nuova luce nei suoi occhi. Il viso mostrava ora un’espressione che
racchiudeva sollievo e soddisfazione. Potevo addirittura scorgere una punta di
orgoglio nella disinvoltura con cui adesso stava ripiegando la busta
trasparente per rimetterla nella borsa.
La misteriosa sensazione di
incoerenza di poco prima aveva dunque una spiegazione assai semplice.
La donna si trovava
effettivamente a disagio, ma non per un profondo conflitto interiore, bensì
perché si sentiva in qualche modo “nuda”, indifesa. Senza i simboli religiosi
che indossava tutti i giorni, aveva perso una parte importante della sua
identità. Forse per un attimo aveva persino dubitato della sua fede e questo
l’aveva fatta sentire perduta. Forse nel momento in cui il viso era nascosto
dai capelli aveva davvero versato una lacrima, ma non per un amore perduto. Più
probabilmente per il rimorso di aver dubitato anche un solo istante.
Così ora, carceriera di se
stessa, la donna si era nuovamente rifugiata tra le solide pareti della sua
salvifica devozione. Prigioniera di un’idea, ma finalmente felice.
L’altoparlante annunciò con
voce metallica la mia fermata: sorrisi educatamente e mi preparai a scendere.
La crisi c'è per tutti è ormai una un'espressione di uso quotidiano. La sento spesso pronunciare con leggerezza, o accompagnata da una risata stridula e forzata, come per scongiurare un grande pericolo. Peccato che quel pericolo abbia già penetrato le nostre case, depositandosi su ogni cosa e su ogni persona come l'odore di fritto, opprimente per il respiro, che si attacca a tutto e se ne va solo dopo una bella lavata. Avremmo bisogno di una grande pulizia di primavera, anche in questa torrida estate. Bisognerebbe attuare un radicale rinnovamento, una selezione delle cose vecchie e logore da buttare e di quelle nuove e utili da tenere. E naturalmente dovremmo rivolgerci ai giovani, unica speranza per il futuro, per compiere questa grande impresa, per risollevare non solo il nostro Paese, ma tutto il mondo da una delle peggiori crisi della Storia.
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Ma ecco il desolante scenario che ci si presenta davanti: ragazzi e ragazze technology addicted, incapaci di comunicare se non per via mediatica, per lo più dipendenti da alcool e fumo. Per non parlare della tendenza all'omologazione, del progressivo abbassamento del livello culturale delle masse, della mancanza di valori e prospettive. E ancora, bambini violenti e intolleranti verso i loro coetanei fin dalla più tenera età, bambini viziati e prepotenti. Che razza di persone diventeranno, quando saranno adulti? Come possiamo affidare il futuro della Terra a persone a tal punto prive di giudizio, individualità, responsabilità, spirito di iniziativa e collaborazione? Si apre una prospettiva a dir poco inquietante. Forse non siamo molto lontani dai terribili mondi distopici di alcuni romanzi sci-fi.
Le nuove generazioni sono allo sfascio, questo è certo. E' una cosa di cui ci si puo' accorgere facilmente guardandosi intorno, osservando bambini e ragazzi, ascoltando quel poco che han da dire. Me ne accorgo io stessa, nella piccola realtà di un paese di campagna, dove una delle maggiori preoccupazioni della gente è quella di essere super-aggiornata sui fatti del vicino di casa. A volte mi capita di ascoltare o partecipare ad assurde conversazioni tra ragazzi e ragazze all'incirca della mia età e mi accorgo allora in quali proporzioni la crisi abbia investito i giovani, ed in quale modo subdolo e meschino. Perché i giovani stessi non si rendono conto del degrado della realtà in cui vivono ed è proprio questo lo scopo di coloro che utilizzano a proprio vantaggio il male delle altre persone.
Cercherò quindi di spiegarvi in cosa consiste questa crisi dei giovani e dirvi quali sono i fattori che la alimentano. Non voglio imbarcarmi nella scrittura di un saggio lungo e pesante, ma porterò esempi della mia esperienza personale, così, miei cari lettori, potrete giudicare voi stessi fino a che punto siamo arrivati. Dovrò scavare a fondo nella squallida quotidianità dei nuovi adolescenti e forse potremo trovare insieme una via d'uscita, un modo per fermare questo vortice che ci sta trascinando nell'abisso.
Partirò con una semplice schematizzazione della situazione attuale che ho realizzato io stessa. Potrete vedere molto chiaramente il loop che tiene prigionieri i giovani d'oggi.
Comincerò a parlare dell'ambito sociale, perché ritengo sia il nucleo del problema. La socialità è una caratteristica innata dell'essere umano, che si sviluppa fin dai primi anni di vita, un po' per imitazione, un po' per istinto. La capacità di relazionarsi con i propri simili nel modo più appropriato deve essere insegnata al bambino prima di tutto dal genitore e in seguito anche dagli insegnanti, nel suo percorso di formazione. Tuttavia, a me sembra che molti genitori non prendano sul serio questa tappa fondamentale della crescita dei loro figli. Proprio nel momento in cui essi avrebbero più bisogno della loro presenza, li abbandonano davanti alla televisione o davanti al videogame. Oppure li "parcheggiano" al pre-scuola, al dopo-scuola o al cre estivo. Molte persone al posto del loro affetto, nutrono i propri figli con dannosi surrogati. Non c'è da stupirsi (e tuttavia non riesco a non stupirmi) se molti bambini crescono come piccoli tiranni.
Vi propongo subito un episodio inquietante che mi è stato raccontato. Il figlio di una persona che stimo e alla quale sono affezionata, ha subito un grande trauma all'età di circa 3-4 anni (ora è uno splendido e intellegente bambino di 8 anni). Tornava a casa dall'asilo piangendo, dicendo di non volerci tornare. Aveva gli incubi la notte, si svegliava gridando. La madre, preoccupata, è andata a parlare con le maestre ed ha così scoperto che il piccolo era stato messo in un angolo e picchiato dai suoi coetanei, più di una volta! Lui non reagiva, perché i genitori gli avevano insegnato a non picchiare gli altri bambini! Sono rimasta sconcertata quando mi è stato raccontato il fatto. Non avrei mai immaginato che bambini così piccoli fossero capaci di formare delle vere e proprie bande di bulletti prepotenti.
Come si spiega il comportamento di questi bambini? Non serve essere esperti psicologi per dirlo. Ormai è infatti risaputo che i videogame violenti - così diffusi tra le nostre famiglie - hanno un'influenza altamente negativa sui bambini e i ragazzi in generale. Ma non solo, perché molti cartoni animati trasmessi alla televisione nelle ore più strategiche - la mattina a colazione, il pomeriggio all'ora della merenda - sono incentrati su combattimenti, lotte, guerre. E checché ne dicano esperti o meno, non è solo il sangue a determinare la violenza di film e cartoni animati. Perché dunque - mi appello ai genitori - non regalate un buon libro ai vostri figli? Un libro che parli d'amore e d'amicizia, un libro che parli di scienza, di storia, di avventure in mondi fantastici. Spronateli a leggere e ad imparare, spegnete quella scatola ronzante che tenete in cucina: si puo' vivere anche (e meglio) senza, credetemi.
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Ma proseguiamo questa triste analisi e addentriamoci nell'oscuro mondo dell'età adolescenziale. Molti genitori sono a dir poco terrorizzati da questo drastico passaggio, da questa metamorfosi dei loro bambini in persone (quasi) adulte. Ecco il momento dei silenzi senza motivo, degli inspiegabili e repentini cambiamenti d'umore, dell'atteggiamento arrogante e irrispettoso. Ma l'adolescenza non è sinonimo di ribellione. E' invece il delicato periodo in cui si forma la personalità di un individuo; è, per così dire, il momento in cui si ripassano per bene i contorni di un disegno per fargli assumere la forma definitiva. Detto ciò, è evidente che gli adolescenti siano esrtremamente malleabili e influenzabili nelle loro scelte e nel loro sistema di pensiero. La frase di un insegnante, il consiglio di un amico, un'esperienza positiva o negativa, possono determinare una svolta radicale nel comportamento di un giovane.
Questa, purtroppo, è una cosa ben risaputa nel mondo della televisione e dei media in generale. Il potere della pubblicità, sottovalutato dai consumatori privati, è ben conosciuto e sfruttato da tutti i potenti del mondo. L'influenza della pubblicità è tale da ridurre notevolmente il nostro libero arbitrio. E se gli adulti, già temprati da numerose esperienze personali, sono estremamente influenzati dalla pubblicità, cosa possiamo pensare dei giovani? So che è difficile convincersi di queste parole, io stessa che scrivo tendo a sentirmi immune da questo potere. Eppure, usando la razionalità, comprendo che i miei gusti sono condizionati, per quanto io mi sforzi di estraniarmi dalle tendenze generali. Ma se fatico a trovare i segni del condizionamento in me stessa, non posso dire altrettanto della gente intorno a me. Mi accorgo chiaramente di quanto una persona sia influenzata dai media nel modo di vestire, di parlare, di atteggiarsi, nei gusti e nelle idee.
L'esempio più significativo è quello della moda. Il concetto di moda non deve essere associato semplicemente all'abbigliamento, ma deve essere esteso a tutto ciò che consideriamo di tendenza. Non solo alcuni oggetti si possono definire trendy, ma anche (purtroppo) alcuni modi di comportarsi, alcuni modi di comunicare. Insomma, l'importante non è chi sei, ma quello che hai o quello che fai.
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Caso emblematico è quello dei social networks - idolatrati dalla maggioranza delle persone - che sembrano essere indispensabili per la vita sociale del XXI secolo. In realtà, i vari Facebook, Twitter, MySpace invece che aiutare a relazionarsi con gli altri, hanno notevolmente peggiorato la socialità della gente, ed in particolare quella delle nuove generazioni. Ora, poiché mi piace essere equilibrata e razionale, devo chiarire che non è il social network in sè ad essere dannoso, ma l'immagine che si è creata attorno ad esso e di conseguenza, l'uso che ne viene fatto. E' un classico discorso che viene spesso associato alla scienza e alla tecnologia, ma non è banale come sembra. L'invenzione della rete Web, forse una delle più importanti e rivoluzionarie del XX secolo, è nata proprio con lo scopo della condivisione dell'informazione. Informazione però che non viene proposta allo spettatore passivo, ma che deve essere cercata, analizzata e criticata dal singolo utente. Dunque, per non divagare troppo, anche il social network puo' essere un ottimo modo per la condivisione di informazioni e news dell'ultimo secondo. Il problema sta nel rapporto che si è venuto a creare tra l'utente e il mondo del social virtuale, fondamentalmente un rapporto di dipendenza.
Tutte le volte che vado a casa di amiche e accendiamo il computer, la prima cosa che vedo fare è controllare le notifiche su Facebook. Magari avevano spento il pc solo qualche minuto prima che arrivassi. Ma talvolta, anche persone ospiti da me mi hanno chiesto di "andare un attimo su Facebook" per controllare non so cosa. Insomma, se non sei tranquillo senza aprire Faccialibro ogni dieci minuti, non puoi negare di avere qualche problema. E io, dopo averci riflettuto un po', ho capito qual è il problema, perché i social networks sono così amati.
Tutti lo fanno, nessuno vuole ammetterlo: spiare le altre persone. Facebook è lo strumento assolutamente infallibile per scoprire cosa fa, cosa pensa, cosa piace ad una persona; è come un esteso documento d'identità che contiente tutte le informazioni più appetitose per i curiosi ficcanaso. E' inutile che mi vengano a dire che è comodo per restare in contatto, perché allora il buon vecchio MSN era più che sufficiente. La verità non è altro che questa, e cioè che grazie all'onnisciente Facebook, ora tutti possono soddisfare le proprie morbose curiosità. "E' ridicolo non iscriversi a Facebook per una questione di principio" mi è stato detto. Io, che sono una persona a cui non piace discutere, non ho risposto. Ma dentro di me sono rimasta sconvolta: lasciando perdere il fatto che ho i miei buoni motivi per non iscrivermi, vorreste dirmi che non ho neppure la libertà di avere un MIO PRINCIPIO indiscutibile?! Qui Orwell direbbe con soddisfazione: "Cosa vi avevo detto?" Altro che 1984!
Ma per fortuna che conservo qualche principio mio, non influenzato dalla tendenza di massa!
Twitter, il secondo social network più conosciuto, ha un altro problema. Sicuramente è anch'esso un veicolo di informazioni personali, ma più che altro viene utilizzato come una sorta di diario. La gente (l'ho fatto anch'io per un certo periodo, poi mi sono accorta della stupidità della cosa) scrive ogni minuto quello che sta facendo, se è stanca, se è felice, se è triste, se è arrabbiata, condividendo addirittura le funzioni biologiche (fino a questo punto non ci sono arrivata!). Twitter è il deposito degli sfoghi di tutte le persone incomprese e depresse oppure il biglietto da visita di individui che si sentono strafighi. Ma è apprezzato ancora di più da una moltitudine di bimbiminkia che impazziscono per questa o quella star del momento. Infatti Twitter, a differenza di Facebook, viene utilizzato direttamente anche da alcuni VIP e ci sono innumerevoli stupidi che credono di farsi notare, adulandoli in modo patetico. Io sono iscritta a Twitter, e non ho ancora capito se mi risulti di una qualche utilità o meno. Più che altro lo uso per pubblicizzare il blog.
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Ora, che sarete stanchi dopo questa lunga lettura (e vi avverto, ne manca ancora!), vi propongo una chicca del noto youtuber Canesecco. Buona visione!
Vi siete fatti qualche risata? Bene, sono contenta. E' ora di rimetterci al lavoro.
Riprendiamo dunque la questione della moda. Al giorno d'oggi, per essere trendy, non basta indossare abiti griffati, ma bisogna stare attenti a come si sceglie di passare il tempo libero. Perché se preferisci i libri alla discoteca o una serata in pizzeria all'happy hour, allora sei out. Sei simpatico sì, nessuno ha niente contro di te, però, come dire, sei un po' indietro rispetto ai tempi. Ti perdi la cosa più bella, amico, lo sballo! No alcol, no party. Questo è il nuovo slogan. Anche le feste di compleanno ormai devono seguire le inflessibili regole dell'eccesso e della trasgressione. Le basi fondamentali di un party alla moda sono due: 1. Abbondanza di alcol: "Devo farmi qualche cicchetto perché altrimenti non riesco a ballare"
L'ho sentito con le mie orecchie. Tralasciando che "ballare" è una parola grossa per la discoteca, se non puoi fare a meno dell'alcol vuol dire che fondamentalmente ti vergogni di quello che consideri un divertimento. Ma chi ti costringe a farlo allora? Solo perché lo fanno tutti? Allora se diventasse di moda buttarsi nei pozzi, ti butteresti per primo? Non fa una piega. 2.Un numero esagerato di persone, ovvero il caos: "Ma alla festa di... Saremo solo in 20? Ma siamo pochissimi, che
brutto...e poi cosa facciamo dopo aver mangiato? Dobbiamo assolutamente
trovare qualcosa da fare, altrimenti è una noia e se ne vanno tutti."
Altra frase che ho sentito in prima persona. Innanzitutto, più persone ci sono, più la festa diventa dispersiva ed è difficile trovare qualcosa che possa coinvolgere tutti. Inoltre, perché tutti disdegnano il primo e fondamentale dono dell'Uomo, la parola? Discutere, scambiarsi opinioni, raccontare storie interessanti e divertenti, ascoltare l'esperienza di altre persone... Sono forse attività noiose? Da parte mia, ritengo siano queste le basi della vera vita sociale.
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E perché, secondo voi, tutti questi giovani cercano la trasgressione? E' un cane che si morde la coda, come già spiegato. Da una parte la pubblicità propone il binomio ALCOL=DIVERTIMENTO (nel video qui sotto potrete vederne alcuni esempi); dall'altra è il bisogno inconscio di evadare da una realtà sempre più degradata. E qui entriamo nell'ambito economico.
Essere alla moda è molto costoso. Pensate ai nuovi gadget high-tech, ai vestiti, a quanti soldi servono per uscire il sabato sera, tra benzina, cena, discoteca e alcolici.
Il problema qui riguarda la famiglia. Anche se la crisi economica ha ridotto di non poco lo spessore dei portafogli, molte famiglie mantengono il tenore di vita degli anni scorsi. Insomma, si vive al di sopra delle proprie possibilità sperando nell'arrivo della gallina dalle uova d'oro.
Inoltre si è progressivamente sviluppata la mentalità del: "Mio figlio deve avere tutto, deve poter fare tutto quello che vuole, è sempre lui la vittima, deve essere sostenuto in tutto e per tutto". E' sempre la stessa questione: per "rimediare" ad un rapporto troppo distaccato, si vizia il figlio assecondandolo in tutte le sue richieste. Così, tra uno smartphone e un iPad, sono sempre meno le risorse dedicate all'istruzione. Non che le famiglie rinuncino alle varie spese connesse alla scuola: quello che manca è l'incoraggiamento. Sono pochi i genitori che spronano i propri figli ad approfondire questioni e tematiche che vengono affrontate sui banchi di scuola. Allo stesso tempo però, è generalmente diffuso un certo orgoglio egoistico, per cui il figlio è perfetto e se ha dei problemi è sempre colpa degli altri. Mi racconta spesso il mio papà che quando era un bambino, se uno tornava a casa lamentandosi di essere stato picchiato dall'insegnante, i genitori rincaravano la dose, perché di sicuro se l'era meritato. Oggi, maestri e professori ricevono insulti e minacce - denunce, talvolta - se bocciano i bambini con delle difficoltà (e anche di questo ho i testimoni diretti, credetemi).
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Questo problema, unito alle cifre non indifferenti che richiede la frequentazione di scuole superiori ed univeristà, ha fatto sì che il livello culturale di massa si sia abbassato notevolmente in questi ultimi tempi. La cultura è ormai un privilegio dei ricchi, che possono permettersi di mandare i propri figli a prestigiosi istituti privati (per saperne di più: La scuola di serie B ). Chi invece non dispone di grandi patrimoni si deve accontentare di scuole pubbliche in cui talvolta manca adddirittura la carta igienica.
Non c'è da stupirsi poi se i giovani non si sentono motivati nello studio.
Non c'è da stupirsi se navigando sul web si trovano queste cose.
Avete riso? Vi capisco, ma ci sarebbe da piangere.
Sempre per restare in tema vi propongo un estratto di una conversazione fra due ragazzine di prima superiore che ho sentito, aspettando il treno la mattina.
Devo fare una piccola premessa: nel mio liceo, da un paio d'anni, grazie alla fantastica riforma Gelmini, sono state notevolmente ridotte le ore settimanali. Io, mantenendo il programma precedente, da settembre avrò tre giorni con cinque ore di lezione e tre giorni con sei. I nuovi arrivati non hanno neanche tutte le mattine da cinque ore, ma alcune da quattro. Le "seste ore", come le chiamiamo in gergo, non sapranno mai cosa siano.
A: "Facciamo qualcosa oggi dopo la scuola? A che ora esci?"
B: "Oh che palle, oggi ho cinque ore, quindi esco all'una meno dieci."
A: "Cinque ore?! Dev'essere una noia!"
B: "Madonna, ti giuro, se dovessi fare cinque ore tutti i giorni non ce la farei!"
Ovviamente non sono le parole esatte che hanno detto, ma il succo era questo. Non saprei come commentare questo episodio, credo dica tutto da sè.
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Bene, sono ormai alla fine di questo lungo monologo. Naturalmente non ho potuto affrontare tutte le tematiche relative al degrado delle nuove generazioni: ci sarebbero tante altre cose da dire.
In ogni caso, quello che ho scritto non è il frutto di un cavilloso ragionamento mentale, ma un semplice reportage nato dalla mia esperienza di giovane in mezzo ai giovani.
Mi aspetto delle critiche, senza dubbio. Sicuramente qualcuno mi accuserà di saltare alle conclusioni troppo in fretta, di non avere la mente abbastanza lucida in quanto parlo di una realtà in cui vivo e da cui potrei sentirmi urtata. E invito questo qualcuno a spiegarmi il suo punto di vista, a dirmi quello che pensa, perché questo post vuole essere una provocazione, una scintilla per accendere una discussione.
Sento la necessità confrontarmi con altre persone, non importa la loro opinione, perché devo capire fin dove arriva la mia capacità di osservazione ed analisi della realtà. Devo sapere se altri percepiscono il mio stesso disagio, se condividono le mie paure riguardo al futuro, o se mi sto fasciando la testa per niente.
Ma soprattutto voglio suscitare indignazione! Voglio che, leggendo le mie parole, rimangano indignati tutti coloro che si sentono estranei allo squallore di cui ho scritto.
Voglio che tutte queste persone urlino: NOI NON SIAMO COSI', NOI SIAMO MIGLIORI!
Voglio sentire qualcuno pronto a combattere per far valere la propria persona, pronto ad unire le proprie forze per trasformare questo mondo in un posto migliore.
Un giorno spiegavo ad una cara amica:
"Tutti noi dovremmo impegnarci al massimo in ogni cosa che facciamo, non importa compiere grandi imprese per essere un eroe. Possiamo cambiare il mondo con le piccole cose."
E lei mi ha risposto:
"Io penso che il nostro impegno, i nostri sforzi, le nostre passioni... Non siano piccole cose, ma grandi cose."
Difficile non essere incuriositi da un film che ha fatto tanto parlare di sé, ancor prima di essere presentato al grande pubblico. Osannato dalla critica di Venezia e condannato aspramente dai moralisti più accaniti, Shame ha catturato l'attenzione di potenziali e sfortunati spettatori con la pretesa di essere il film dell'anno. Se la classifica fosse stabilita in termini di noia e monotonia, senz'altro Steve McQueen potrebbe vincere l'Oscar. Perché questa è la sensazione con la quale si esce dalla sala: Shame è fondamentalmente un film noioso. Brandon (Michael Fassbender) - trentenne newyorkese dell'alta borghesia - è malato di una certa dipendenza dal sesso che condiziona la sua vita e le sue relazioni. Sua sorella Sissi (Carey Mulligan) è preda di una profonda insicurezza che la porta quasi al suicidio. Il rapporto tra i fratelli è segnato da un trauma infantile a cui si allude solamente. Date queste premesse - pensiamo - si svilupperà sicuramente una storia profonda, a tratti commovente, con molti spunti di riflessione. Davvero un peccato sprecare un'idea che apre molte strade con un film di tale banalità. Il protagonista viene presentato senza alcuna introspezione psicologica - forse il regista era troppo occupato a pensare quante volte sarebbe stato opportuno farlo entrare in scena nudo. Sissi, trascurata e depressa, è ovviamente l'aiutante della favola, la vittima buona che magicamente rompe la maledizione di cui è prigioniero il fratello. E come? Tentando di togliersi la vita naturalmente. Visto e rivisto. Ma soffermiamoci anche sulle famose scene hard che hanno suscitato tanto scalpore. In un film che parla di sessodipendenza non ci si potrà certo aspettare di vedere api e fiorellini. E' inutile continuare a fare i falsi moralisti, è inutile continuare a vergognarsi di ciò che si fa. Non è questo di sicuro il motivo per cui Shame è una pellicola da bocciare. Chiaramente, le persone che si lasciano impressionare forse non approveranno l'insistenza del regista su questo tema, ma d'altra parte è di questo che il film tratta. Arriviamo quindi al punto saliente della critica: la durata delle scene. Interminabili sequenze in cui fondamentalmente non accade nulla di significativo. Una Mulligan super-truccata si esibisce (senza nulla togliere alle sue doti canore) per quasi due minuti di orologio in un brano comprendente all'incirca quattro diversi vocaboli. Un atletico Fassbender in tuta e scarpe ginniche ci accompagna in un improbabile tour notturno di New York per un tempo incalcolabile. E tutto questo senza aver accennato alle innumerevoli scene di sesso che, più che vergogna e scandalo, provocano un senso di pesantezza e fastidio. E' necessario liberarsi di questo falso mito del film impegnato che deve essere necessariamente caratterizzato dall'assenza di azione e dal prolungamento eccessivo delle scene. Si nota addirittura, a volte, una certa presunzione, un voler ostentare le proprie (discutibili) capacità da parte di alcuni registi. Intellettuali che vogliono realizzare film ermetici, dalla difficile compresione e interpretazione per - questa la loro motivazione - spronare la gente a riflettere su questioni filosofiche, psicologiche, sociali. Ma viene invece da pensare se non sia piuttosto un modo per nascondere la propria inadeguatezza, la propria mancanza di originalità. Generalmente parlando, ovviamente. Come concludere, dunque, dopo questa parentesi di riflessione? Non è necessario aggiungere altro, se non il sincero consiglio di evitare questo film pesante come un mattone.
Piccola recensione schematica per chiarire i pregi e i difetti di questo classico intramontabile.
Lo stile è estremamente scorrevole, moderno rispetto all'epoca in cui è stato scritto il romanzo.
L'introspezione psicologica dei personaggi è molto accurata e affascinante. Charlotte Brönte ha creato personaggi completi, realistici, tormentati dal contrasto bene-male che è in loro.
Jane è una figura femminile rivoluzionaria: la sua forza di volontà, il suo coraggio, le sue passioni escono dal conformismo del periodo vittoriano e danno vita ad un ideale di emancipazione della donna.
L'elemento di mistero - il segreto di Thornfield - contribuisce a rendere avvincente la trama e dà un tocco di suspense che inquieta.
L'amicizia di Jane con Elena e la sua tragica fine è forse l'episodio più toccante del romanzo.
Nella vita di Jane si alternano grandi fortune e grandi sfortune. Questo rende meno realistica la vicenda e le dà piuttosto un carattere fiabesco.
Alcune scene romantiche tendono ad essere melense.
Il lieto fine avviene con troppa facilità: la reazione di Rochester al ritorno di Jane è in contrasto con il carattere orgoglioso del personaggio.
I giovani d'oggi mi preoccupano. Beh, anche tu lo sei, mi direte. E io vi rispondo che sì, anch'io faccio parte di questa generazione, ma trovo difficile esserne orgogliosa.
C'è qualcosa di profondamente sbagliato in quello che vi farò leggere.
Ma se voi credete che non ci sia nulla da temere...
Fidanzatino conteso, 12enne picchiata
Da compagne davanti ad una scuola di Tor Bella Monaca a Roma
(ANSA) - ROMA, 21 SET - E' stata picchiata a 12 anni, da
alcune coetanee per un fidanzatino conteso. La ragazzina e'
stata aggredita davanti ad una scuola media del quartiere
periferico di Roma Tor Bella Monaca. Il ''blitz'' delle compagne
gelose e' scattato alla fine delle lezioni, attorno alle 15. Una
di loro ha anche dato un pugno ad un occhio alla 12enne che e'
stata trasportata in ospedale dal 118 in codice giallo.
Violenza sessuale di gruppo su 2 minori 15 Settembre 2011(ANSA) -
LECCE
- Sette minorenni, tutti tra i 15 e i
16 anni, di Melpignano (Lecce) sono indagati per episodi di
violenza sessuale di gruppo che avrebbero compiuto nei confronti
di due amiche, di 13 e di 14 anni, che avevano voluto punire
perche' le ragazzine avevano deciso di uscire dalla comitiva.
La situazione e' stata denunciata dai genitori delle vittime,
ai quali le due amiche hanno raccontato tutto dopo l'ennesimo
episodio di violenza subito, avvenuto il 30 luglio
Bullismo: picchiavano coetanei, arrestati due minorenni
07/09/2011
Minacciavano, picchiavano e rapinavano i loro coetanei e poi si vantavano su facebook. E' successo a Gratosoglio, un quartiere di Milano, dove due ragazzini, rispettivamente di 15 e 16 anni, sono stati arrestati questa mattina dai carabinieri con l'accusa di aver compiuto almeno quattro rapine ai danni di loro coetanei.
Gli episodi di bullismo sono avvenuti tutti nel quartiere Gratosoglio, dove gli adolescenti abitavano, nei mesi di gennaio e febbraio: nel mirino delle forze dell'ordine anche altri 15 giovani, tutti tra i 15 e 16 anni, tra cui 5 ragazzine, denunciati a piede libero con l'accusa di lesioni personali, violenza privata e rapina.[...] Le indagini sono partite grazie alla denuncia di una delle vittime che ha riconosciuto il proprio aguzzino su facebook, grazie al soprannome “Diabolik” con il quale era registrato e con cui era conosciuto nel quartiere. E proprio sulle pagine del social network, i bulli erano soliti vantarsi delle proprie azioni: su uno dei profili dei piccoli malviventi, infatti, comparivano scritte inneggianti le loro malefatte: «Oggi lo abbiamo pestato di brutto», «Siamo i numeri uno», «Distruggiamo tutto», scrivevano i ragazzini, lanciando improperi contro le forze dell'ordine, «Sbirri maledetti, se vi acchiappo vi distruggo», e idolatrando noti personaggi della criminalità organizzata come Totò Riina e Salvatore Lo Piccolo.[...]
"Al giorno d'oggi quasi tutti i bambini erano orribili. La cosa peggiore era che organismi come le Spie li trasformavano in tanti piccoli selvaggi ingovernabili [...]. Era quasi normale che le persone di età superiore ai trent'anni avessero paura dei propri figli."
Capolavoro della narrativa
distopica, 1984 è divenuto ormai un
classico della letteratura inglese del XX secolo. Realizzato tra il 1946 e il
1948, il romanzo porta un titolo allusivo quanto provocatorio, ottenuto dallo
scambio delle cifre finali dell’anno stesso in cui è stato completato: con
questo espediente, lo scrittore George Orwell (pseudonimo per Eric Arthur
Blair) sembra voler porre un monito alla società del tempo, appena uscita dal
secondo devastante conflitto mondiale e agli albori della guerra fredda. 1984, infatti, proietta il lettore in
una realtà distorta, un mondo corrotto in cui regnano l’odio e la paura,
nient’altro che le basi per un totalitarismo “perfetto”.
«Che cosa succede, se il
passato e il mondo esterno esistono solo nella vostra mente e la vostra mente è
sotto controllo?» Si chiede Winston, il protagonista, durante una delle sue
tante riflessioni. Basta questo per renderlo incriminabile di psicoreato, egli ne è consapevole. Allo
stesso tempo però, sa di essere nel giusto, sa che il Socing è solamente un insieme di menzogne e cova segretamente il
folle desiderio di una rivolta di massa. Winston è ‘l’ultimo eroe’, che insieme
alla compagna Julia, crede ancora nell’amore, nella libertà e nella dignità
umana, valori destinati a scomparire per sempre a opera della neolingua, l’idioma ufficiale del
Partito, che ha lo scopo di eliminare tutti i termini “non necessari” insieme
ai loro concetti. Ma questo è solo uno dei numerosi strumenti di controllo del
Grande Fratello, la mente onnisciente e onnipotente al vertice della gerarchia
dello stato di Oceania. Essa è in continua guerra con l’Eurasia o l’Estasia, le
altre due super potenze in cui è diviso il pianeta, ma poco importa quale sia
il nemico e quale l’alleato, perché il passato, recente e lontano, è
perfettamente modificabile e il Grande Fratello è da sempre e sempre sarà
infallibile e vittorioso.
Questa angosciante
considerazione accompagna il lettore per tutta la durata della narrazione che,
pur essendo ricca di colpi di scena, presenta una fluidità sorprendente e rende
il romanzo scorrevolissimo, quasi a creare un contrasto con la gravità dei temi
trattati. 1984 èinfatti un grido silenzioso, un’accusa feroce ai regimi
totalitari, sia di stampo nazi-fascista che comunista, intenzionati a piegare
tutta la popolazione al volere di una ristretta casta privilegiata. Ma cosa può
fare un uomo solo, di fronte ad un potere illimitato e senza scrupoli? La
risposta non lascia speranze: soccombere, ed accettare che 2+2=5.
Ancora
una volta Murakami lascia il segno, facendo emergere la sua fantasia visionaria
tra le righe di un romanzo caratterizzato da un’estrema delicatezza. Ne La ragazza dello sputnik si rivela
infatti tutta l’abilità dello scrittore giapponese che, con onestà e
naturalezza, affronta un argomento considerato tabù per molte culture e
religioni, inserendolo in una dimensione di sogno e mistero.
La
giovane Sumire, aspirante scrittrice di romanzi, è perdutamente innamorata
della bellissima Myu, donna matura e già sposata. Myu però non può ricambiare perché
qualcosa legato al suo passato l’ha cambiata per sempre, rendendola la metà di se stessa. Nell’intreccio si
inserisce anche l’io narrante del romanzo, personaggio senza nome nel ruolo del
migliore amico e confidente di Sumire, innamorato della ragazza e, ovviamente,
non ricambiato. Sembra un empasse, un vicolo cieco, ma Sumire trova una via
d’uscita (o un’entrata?) perché «se si segue la logica, la soluzione è
piuttosto semplice. Basta sognare. Entrare nel mondo dei sogni e non uscirne
più.» Forse è proprio questa la chiave del mistero, forse in un altro mondo
Sumire e Myu potranno incontrarsi mettendo fine al loro volo di satelliti
solitari…
Chi
ha letto altri romanzi di questo autore dalla sorprendente capacità narrativa ne
riconoscerà lo stile inconfondibile, ricco di descrizioni minuziose di luoghi e
persone e contraddistinto da una sincerità libera da ogni malizia nel trattare
il tema del sesso e dell’amore. Non solo, perché ne La ragazza dello sputnik si ritrovano anche molti temi cari allo
stesso Murakami, tra i quali il più importante, e di certo il più affascinante,
è quello della dicotomia tra corpo e coscienza, tra fisico e immateriale, di
cui i personaggi sono spesso vittime. ‘Vittime’ in quanto tale bipartizione non
è mai un beneficio, bensì un ostacolo insormontabile, un destino a cui
arrendersi. Ma viene da chiedersi se la resa non sia invece la scelta
volontaria di accettare se stessi, per ciò che si è, e la propria vita, per
quanto banale possa sembrare.
Ed
ecco come affiora nuovamente e con forza il gusto per l’onirico e il
soprannaturale, elemento essenziale dello stile di Murakami. Lo scrittore,
scavando a fondo nell’anima dei personaggi, e rendendo sempre più sottile il
confine fra sogno e realtà, crea un’opera di profonda introspezione psicologica
che, con un magico tocco di suspense, conquista il lettore fin dalle prime
pagine.
Frasi più belle
«Però, se mi è concessa un’osservazione banale, in questa
vita imperfetta abbiamo bisogno anche di
una certa quantità di cose inutili. Se tutte le cose inutili sparissero,
sarebbe la fine anche di questa nostra imperfetta esistenza.»
«La comprensione non è altro che una serie di
fraintendimenti.»
«Un silenzio che non offre promesse continua a riempire lo
spazio all’infinito.»
Finalmente trovo qualche minuto per il mio giovane blog, dopo alcuni giorni distruttivi: scuola massacrante, lezioni di danza di pomeriggi interi e un gelo polare. Del resto non c'è da stupirsi, dicembre arriva ogni anno con il suo carico di verifiche e interrogazioni, con lo spettacolo sempre più vicino, con la neve e, naturalmente, con il Natale.
Il Natale è bello, è una festa importante, è un momento di gioia, arriva Babbo Natale con i regali, nasce Gesù, a Natale si è tutti più buoni, a Natale puoi fare quello che non puoi fare mai..., eccetera eccetera. Ammettiamo pure che sia così, ma a me sembra che ci sia una certa isteria generale durante tutto il periodo natalizio (e, diciamocelo pure, anche un bel po' di ipocrisia).
Innanzitutto, tutte quelle lucine che una volta mi facevano dire: "Ohhh ma come sono belle e colorate!", adesso mi mettono una certa ansia, soprattutto perché quest'anno ho cominciato a vederle dopo la metà di novembre davanti ad alcuni negozi: voglio dire, non facciamo in tempo a festeggiare Ognissanti, e già i commercianti ci assillano con i prodotti natalizi?! Compra, compra, affrettati, compra, compra, affrettati.... sembrano volerti dire.
Questo sì che è spirito natalizio.
Restando in tema, pur di farci acquistare mille, cento prodotti di ogni tipo, i negozi sono aperti tutta la settimana, domenica compresa (ma ovviamente nel resto dell'anno i commercianti, visto che sono molto laboriosi, tengono chiuso, oltre alla domenica anche un giorno feriale - il giorno in cui puntualmente avevi deciso di fare la spesa). Tutto ciò ha come scopo, ben riuscito direi, quello di scatenare un vero e proprio assalto ai centri commerciali, dove persone di ogni età si affrontano in una spietata corsa ai regali. E' incredibile come le pubblicità, le decorazioni, le lucine e le musichette riescano a far acquistare prodotti che in un qualsiasi altro periodo dell'anno, una persona sana di mente non acquisterebbe mai (per averne un'idea --> regali assurdi).
Detto questo, mi viene spontaneo pensare: ma perché dobbiamo avere la scusa del Natale per fare un regalo a una persona a cui vogliamo bene? E perché dobbiamo sentirci obbligati a fare un regalo, se qualcuno ce ne fa uno? Dove va a finire il significato vero della parola "regalo"?
Per rispondere a queste domande bisogna riflettere sul nostro modello di società, che ci obbliga a fare determinate scelte, spesso anche contro i nostri ideali, se non vogliamo essere visti come diversi, antipatici, altezzosi e, nel caso dei regali, taccagni.
Ma al di là del grande consumismo del periodo natalizio, che trasforma questa festa, originariamente sincera e dal messaggio profondo, in una pura operazione commerciale, ciò che mi dà più fastidio è il falso buonismo di cui tutti sembrano vestirsi nei giorni prima di Natale.
A partire dalla pubblicità di una famosa marca di panettoni, che ci vuole intenerire con le dolci voci di un coro di bambini che ci invitano a fare di più (da quanto ormai, 10 anni?) fino alla frase detta e stradetta "a Natale si è tutti più buoni", non riesco proprio a capire come faccia la gente a decorarsi di tutti questi buoni sentimenti, mentre il nostro pianeta sta morendo e migliaia di persone vivono (ma più spesso muoiono...) con il rombo dei cacciabombardieri per le strade, al posto del motivetto di Jingle Bells.
Perché chiudere gli occhi di fronte alla realtà?
Non dico assolutamente di rinunciare a festeggiare e a passare un momento di gioia perché ci sentiamo in colpa e non dico neanche che bisogna obbligatoriamente fare del volontariato e della beneficenza, ma piuttosto di essere un po' più sinceri con gli altri e con noi stessi. Dobbiamo dunque capire che non bisogna fare del bene solo a Natale e, cosa che spesso si dice ai bambini e risulta alla fine molto diseducativa, essere più "buoni" solo per farsi fare dei regali. Natale è semplicemente un'occasione per fare del bene, un'occasione tra le infinite che ci capitano nel corso della nostra vita e che spesso siamo restii a cogliere. Ricordiamoci perciò, che non c'è un momento definito per essere "buoni"e non importa fare grandi cose per diventarlo: basterebbe fare semplicemente il proprio dovere.
Vera bontà non è il semplice fatto di non commettere azioni ingiuste, ma il non volerne neppure commettere
Questo lo diceva Democrito nel V secolo a.C.
Di certo lui non conosceva né Natale, né panettoni.
ATTENZIONE: Quella che segue non è propriamente una recensione del romanzo Non Lasciarmi di Kazuo Ishiguro, ma piuttosto un commento, perciò contiente SPOILERS. Se non avete letto questo romanzo meraviglioso, lasciate perdere il post e affrettatevi a leggere il libro perchè merita veramente (e ovviamente dopo tornate qui a leggere quello che ho scritto! :P).
Immaginate di avere dodici o tredici anni e di vivere in un
collegio magnifico e isolato, immerso nelle colline inglesi. Per quel che ricordate,
avete sempre vissuto lì insieme ad altre decine di ragazzi più o meno giovani
di voi, costantemente sorvegliati da alcuni “tutori” che vi insegnano tutto ciò
che dovete sapere. Vi ripetono sempre che dovete stare molto attenti alla
vostra salute, che dovete comportarvi in modo dignitoso e che dovete sforzarvi
di essere creativi. Naturalmente nel corso della vostra infanzia avete stretto
una profonda amicizia con alcuni compagni e avete sviluppato simpatie ed
antipatie verso i tutori.
Insomma, fin qui la vostra vita, come quella di Kathy, Ruth
e Tommy, può sembrare una vita tipica di un orfano relativamente fortunato. Ma
questi tre studenti di Hailsham,
protagonisti del commovente romanzo di Kazuo Ishiguro, Non Lasciarmi, non hanno nulla a che vedere con gli orfani.
E’ Kathy, ormai adulta, a narrare ai lettori la sua vita,
quasi come si stesse confidando con una persona conosciuta e fidata. I primi
episodi che ci racconta – il suo primo incontro con Ruth, il carattere
difficile di Tommy, lo strano comportamento dei tutori – sono caratterizzati da
un certo “disordine” cronologico, come se i ricordi più lontani della sua
infanzia cominciassero a diventare confusi e le fosse difficile organizzare
bene il pensiero; solo successivamente la storia diventa più lineare.
Kathy, Ruth e Tommy, come tutti i loro compagni di Hailsham,
sono destinati a diventare “assistenti” e “donatori”, sono stati creati per questo scopo e ne sono
consapevoli. Sanno anche che è molto importante riuscire a realizzare bei
disegni e belle poesie, perché queste loro opere possano trovare posto nella
misteriosa Galleria di Madame. Per loro tutto questo è normale e la loro vita
non sembra diversa da quella di qualunque altro adolescente: le amicizie
infantili si evolvono in sentimenti più profondi, a grandi gioie si alternano
momenti di sconforto, i rapporti sono fragili e le emozioni forti. Ma,
inesorabile, si avvicina il momento di lasciare Hailsham e negli ultimi anni al
collegio si crea un’atmosfera di tensione fra gli studenti, i tutori infatti sembrano restii ad affrontare alcuni
argomenti, soprattutto riguardo al futuro dei ragazzi, a quello che li aspetterà
quando dovranno affrontare il “mondo fuori”.
La verità si scopre quasi per caso, come se fosse una cosa
ovvia e conosciuta fin dall’inizio della storia ed è forse proprio per questo
che ci colpisce in modo così violento: studente
non è altro che una parola più gentile per parlare di un clone, destinato in età adulta a donare i propri organi vitali. La crudeltà e l’assurdità di tutto
ciò ci sconvolge e, sebbene avessimo subito intuito la presenza di un segreto
inquietante dietro alla parola “donazione”, ci ritroviamo ora a considerare le
vite dei protagonisti sotto una luce completamente diversa.
Dopo aver trascorso ogni passo della vita di Kathy, Ruth e
Tommy e aver condiviso con loro tutte le gioie, le preoccupazioni, lo
sconforto, la rabbia e soprattutto l’amore, improvvisamente scopriamo che sono diversi da noi e non riusciamo a
capacitarci di come ciò sia possibile.
Bene, è proprio questa sensazione che vuole farci provare
Ishiguro, per farci riflettere su una domanda già affrontata molte volte dalla
filosofia – cosa rende tale un “essere umano”? – e per condannare attraverso la
metafora dei cloni, le discriminazioni sociali. Parallelamente a questo, lo
scrittore ci comunica una forte preoccupazione riguardo allo sviluppo tecnologico,
che potrebbe portare la scienza ad un carattere amorale e spregiudicato, se non
venisse adeguatamente controllato.
Nonostante questo quadro tetro della società, nel romanzo
chiusa e statica, sembra che una speranza ci sia: ciò che unisce tutti e supera
ogni barriera è l’amore, in tutte le sue forme. Non è mai troppo tardi per amare.
A febbraio uscirà nelle sale italiane il film tratto da questo romanzo, diretto dal regista americano Mark Romanek.