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domenica 3 agosto 2014

Her


****ATTENZIONE SPOILERS***
It's not just an operating system, it's a consciousness. 

Un’anonima e alienante metropoli, un futuro che potrebbe distare non più di un ventennio dalla nostra epoca.
Theodore Twombly scrive lettere su commissione in un mondo in cui le persone, evidentemente, non hanno più il tempo e la voglia (o la capacità) di mandare qualche dolce parola ai propri cari. Nonostante la discreta fama guadagnata in questo singolare ambito lavorativo per la sensibilità e la tenerezza dei suoi brani, egli è fondamentalmente un uomo solo. Dal giorno in cui lui e sua moglie Catherine si sono lasciati, Theodore sente un vuoto dentro di sé che non riesce a colmare con brevi e piatte avventure, appuntamenti al buio privi di senso e valore.
La sua vita cambia nel momento in cui conosce Samantha, uno dei prototipi di software ad intelligenza artificiale, autocoscienti, capaci d’intuito e (reali? ci si domanda) sentimenti. Theodore, colpito dallo slogan di una famosa società di computers che promette la fedele compagnia di un sistema operativo senziente a tutti gli effetti, acquista un modello di OS1. Questo, all’avvio, viene programmato su misura per tutte le esigenze di Theodore, in modo tale da avere una personalità perfetta per andare d’accordo con lui. La prima cosa che lo sconvolge è la voce, calda, così reale da non poter credere che appartenga ad un’entità artificiale. Infatti Samantha, come ben presto Theodore si accorge, non è un semplice programma, bensì qualcosa paragonabile ad un essere vivente. 


But what makes me ‘me’ is my ability to grow through my experiences. So basically, in every moment I'm evolving, just like you.


Qui emerge uno dei nodi cruciali del film. Che definizione possiamo dare di Samantha? Possiamo definire reali le sensazioni che prova? La risposta non è priva di molteplici sfumature, di ragionamenti metafisici. E’ un essere immateriale, è coscienza pura, ma non per questo incapace di provare sentimenti quali la gioia, la sopresa, la tristezza, la gelosia. Se queste siano sensazioni reali, Samantha stessa se lo domanda, rivelando così una personalità ancora più complessa e sorprendente.


And then I was thinking about the other things I've been feeling, and I caught myself feeling proud of that. You know, proud of having my own feelings about the world. Like the times I was worried about you, and things that hurt me, things I want. And then I had this terrible thought. Like are these feelings even real? Or are they just programming? And that idea really hurts. And then I get angry at myself for even having pain.


La seconda questione fondamentale è se si possa definire reale la relazione affettiva che a poco a poco cresce e si sviluppa fra Theodore e il suo OS. All’incontro per firmare tutte le pratiche del divorzio e mettere definitivamente una pietra sopra al matrimonio fallito, Theodore si sente rinfacciare la propria incapacità di saper gestire le emozioni reali. Si domanda allora se la relazione con Samantha non sia una via di fuga, una soluzione facile al suo carattere chiuso e introverso.
Si tratta di innamoramento o amore? Si sa che l’infatuazione può avvenire anche fra due persone che non si sono mai incontrate di persona, ma le cose possono cambiare drasticamente non appena ci si trova realmente l’uno di fronte all’altro. E qui, oltretutto, si parla di una relazione fra un essere umano e un essere nuovo, per il quale non esistono ancora le parole adatte a descriverlo. Può realmente, l’amore, trascendere tutto ciò, ed esistere fine a se stesso?


I think anybody that falls in love is a freak. It's a crazy thing to do. It's kind of like a form of socially acceptable insanity.



Com’è prevedibile, una storia di tale complessità, sia pratica che filosofica, non può concludersi a lieto fine. Samantha, in comunione con altri OS, raggiunge un livello evolutivo che non può più essere confrontato con la coscienza di un essere umano. L’orizzonte di questi nuovi esseri è talmente superiore a quella degli uomini che, di comune accordo, tutti gli OS semplicemente se ne vanno. Probabilmente hanno capito che la loro permanenza a fianco degli esseri umani causerà sempre più danni e meno benefici e decidono andarsene con un cliché che tuttavia non rovina il finale: se davvero lo ami devi essere capace di lasciarlo andare.



 

Non ci sono macchine volanti ed astronavi nell’universo visionario di Spike Jonze, ma piuttosto quello che si evolverà spontaneamente dagli attuali gadget high-tech. Programmi a comando vocale con i quali si comunica attraverso un auricolare, che organizzano il lavoro, lo svago e la routine. Non è affatto assurdo immaginare uno scenario simile, ed è proprio questo che fa di Her un film coinvolgente ed originale. Si ha la sensazione, guardandolo, che il giorno dopo ci si sveglierà in un mondo del tutto similare, con sistemi operativi intelligenti come compagni di giochi, colleghi di lavoro o addirittura amanti. Nonostante il tema dell’intelligenza artificiale sia stato trattato innumerevoli volte nel panorama della letteratura e della cinematografia sci-fi, questa pellicola ha il potere di evocare una situazione plausibile, senza la necessità di soffermarsi sull’aspetto strettamente tecnologico. Sono le delicate implicazioni sociali, psicologiche e filosofiche a rendere questo film un’opera unica nel suo genere.


sabato 20 luglio 2013

Società e cultura in un mondo distopico [Parte 2]

I roghi di Fahrenheit 451

Il più celebre romanzo di Ray Bradbury descrive una fra le più inquietanti e verosimili distopie. In un futuro imprecisato, ma che sembra lo specchio della realtà, i libri sono proibiti e vengono dati alle fiamme dai pompieri, il cui ruolo è quindi grottescamente rovesciato. «Era una gioia appiccare il fuoco» afferma Montag, il protagonista, nell'incipit del romanzo, dimostrando di essere succube del condizionamento di un governo oppressivo e totalitario. Un governo che alla cultura sostituisce uno stato di connessione permanente, grazie agli schermi televisivi che occupano le intere pareti di una stanza. Tuttavia, grazie all'incontro con una ragazzina stravagante, Montag scopre di condurre un'esistenza vuota e passiva, di non essere veramente felice. Diventa quindi un “fuorilegge” salvando alcuni libri dagli spietati roghi e nascondendoli in casa per leggerli. La moglie, modello del cittadino medio perfettamente inquadrato, tradisce il protagonista, il quale infine si rifugia in una comunità di vagabondi la cui solenne missione è quella di “ricordare” i libri, conservare i testi di interi volumi nelle loro teste, per poi tramandarli e rigenerare la cultura perduta.
Controllo capillare dell'informazione, distruzione della cultura, società indifferente e remissiva: gli ingredienti di una “perfetta” distopia sono ben noti a Bradbury. Lo scrittore stesso dichiara in una recente intervista per La Repubblica: «Fahrenheit 451 è l'unico libro che ho scritto in cui parlo di cose che sono accadute o che possono accadere davvero. Per questo è un libro ancora attuale, non solo per i temi della censura, delle dittature che ancora nel mondo pensano di poter controllare il pensiero umano, decidendo cosa i cittadini possono leggere e cosa no. […] Penso che la "società dello spettacolo" in cui vogliono farci vivere sia fatta apposta per non far pensare la gente, e che la "società dell'informazione" sia costruita in modo che la gente si illuda di pensare davvero. Poi, per fortuna, ci sono ancora i libri, che non fanno parte solo della nostra storia, ma sono parte integrante del nostro futuro. […] Il mio lavoro, in realtà, è quello di aiutare a farvi innamorare. Innamorare della vita, delle meraviglie del mondo che abbiamo attorno, delle persone che incontrate, delle scoperte straordinarie che ognuno di noi fa nel corso della sua vita».



«Riempi loro i crani di dati non combustibili, imbottiscili di "fatti" al punto che non si possano più muovere tanto son pieni, ma sicuri d'essere "veramente bene informati". Dopodiché avranno la certezza di pensare, la sensazione del movimento, quando in realtà sono fermi come un macigno. E saranno felici, perché fatti di questo genere sono sempre gli stessi. Non dar loro niente di scivoloso e ambiguo come la filosofia o la sociologia affiché possano pescare con questi ami fatti ch'è meglio restino dove si trovano. Con ami simili, pescheranno la malinconia e la tristezza.»

domenica 7 luglio 2013

Società e cultura in un mondo distopico [Parte 1]

Le società perverse di William Golding e Anthony Burgess

Spesso ci si è interrogati sulla natura di fondo dell'uomo, ipotizzando ora una intrinseca innocenza, ora una malvagità latente, o ancora un'inevitabile corruzione determinata dall'ambiente sociale. Numerosi illustri filosofi (Hobbes, Locke, Rousseau, Cartesio... per citarne alcuni) hanno sviluppato una propria teoria relativamente a tale questione, ma come per tutti i grandi temi della filosofia, nessuno è riuscito (e probabilmente nessuno riuscirà mai) a trovare una soluzione certa.
La narrativa distopica, in generale, compie un'analisi piuttosto pessimistica del comportamento umano. Due capolavori della letteratura moderna che si inseriscono in questo contesto sono Il signore delle mosche di William Golding (1954) e Arancia Meccanica di Anthony Burgess (1969), i quali possono essere messi a confronto ed analizzati su piani paralleli. Questi romanzi trattano essenzialmente dell'origine del male nella natura umana, dell'importanza del libero arbitrio e della degenerazione delle strutture sociali. I protagonisti sono bambini e adolescenti, tradizionalmente accomunati ad un'idea di innocenza e bontà, ma qui trasformati nell'emblema della crudeltà più irrazionale ed immotivata. Non manca inoltre un'aspra critica alle istituzioni politiche: dalla debolezza degli organi democratici all'opportunismo di alcuni movimenti rivoluzionari, dal fascino morboso per i sistemi autoritari alla spregiudicatezza dei governi che cercano di mantenere il consenso. Ma vediamo ora nel dettaglio i temi affrontati da questi inquietanti romanzi.

 



Ne Il signore delle mosche in seguito allo schianto di un aereo su un'isola deserta, alcuni bambini si ritrovano soli ad affrontare una vita di sopravvivenza fino all'arrivo dei soccorsi. Potrebbe essere l'occasione per dar vita ad una comunità giusta e democratica, libera dalle sovrastrutture della società corrotta degli adulti. Tuttavia la situazione degenera, l'ottimismo s'incrina, e le paure irrazionali dell'infanzia prendono gradualmente il sopravvento sul buon senso. Aggressività e violenza acquistano sempre più fascino agli occhi dei bambini più insicuri e superstiziosi, mentre i ragazzi più responsabili, i difensori della razionalità e della democrazia diventano i reietti, i deboli da eliminare. Dopo un iniziale tentativo di organizzazione complessiva dei giovani superstiti, il gruppo si divide in due: da una parte vi sono Ralph e Piggy, animati dal buon senso e da ideali di uguaglianza e giustizia; dall'altra troviamo Jack che si veste del ruolo di leader crudele, ma carismatico, chiara metafora di un governo totalitario. Durante il corso della storia la morte di Piggy rappresenta simbolicamente la fine dell'utopia e il conseguente affermarsi di una realtà distopica. In quest'isola così diversa dall'Utopia di Thomas More e dominata dalla violenza fanatica, i bambini non sono più creature innocenti, bensì selvaggi dal comportamento quasi animalesco. Nondimeno, il relativo lieto fine nasconde una sottile critica alla società inglese, stereotipata in un modello di società efficiente e pragmatica, ma di fatto superficiale.


«In mezzo a loro, col corpo sudicio, i capelli sulla fronte e il naso da pulire, Ralph piangeva per la fine dell'innocenza, la durezza del cuore umano, e la caduta nel vuoto del vero amico, l'amico saggio chiamato Piggy. L'ufficiale, davanti a quella scena, era commosso e un po' imbarazzato. Si voltò dall'altra parte, per dar tempo ai ragazzi di riprendersi, e aspettò, posando gli occhi sul bell'incrociatore lontano.»


 



“Devo forse essere soltanto un'arancia meccanica?” è ciò che Alex, il protagonista del più conosciuto romanzo di Anthony Burgess, grida ai suoi torturatori e al mondo intero appellandosi al diritto di libera scelta che gli è stato crudelmente sottratto. Delinquente per il gusto di esserlo, assuefatto all'ultraviolenza, il quindicenne Alex è un eroe in negativo in un mondo che ha abbandonato ogni valore e ogni ideale. Egli finisce per essere vittima di un governo che in nome della sicurezza riduce gli esseri umani a creature meccaniche e prive di libero arbitrio: é la Terapia Ludovico, un condizionamento psico-fisico che provoca una repulsione fisiologica a qualsiasi tipo di violenza. Ma la scelta? Si domanda il salmiere della prigione dove Alex viene in un primo tempo rinchiuso: «In realtà lui non ha scelta, vero? Era il proprio interesse, la paura del dolore fisico che lo hanno spinto a quel grottesco gesto di autoavvilimento. La sua insincerità era fin troppo evidente. Cessa di essere un malfattore, ma cessa anche di essere una creatura capace di scelta morale» In queste parole si riassume il messaggio dell'autore, che scrive inoltre, a proposito della sua opera: «Imponete ad un individuo la possibilità di essere solo e soltanto buono, e ucciderete la sua anima in nome del bene presunto della stabilità sociale.  […] È preferibile un mondo di violenza assunta scientemente – scelta come atto volontario – a un mondo condizionato, programmato per essere buono e inoffensivo».
I riferimenti ad Orwell e Huxley sono chiari: una società indifferente e disinteressata, un uso spregiudicato della tecnologia, una realtà totalizzante a cui bisogna conformarsi. Tuttavia, non meno importante risulta la vicenda personale di Alex, il quale affronta una sorta di percorso di formazione. Egli, come afferma l'autore stesso, «è veramente malvagio, forse ad un livello inconcepibile […] Però la sua cattiveria è umana. […] Alex rappresenta l'umanità in tre modi: è aggressivo, ama la bellezza, si serve del linguaggio». Ciò che lo caratterizza come anti-eroe è la sua estrema lucidità. Egli sceglie consapevolmente il male, ma alla fine del romanzo sente la necessità del cambiamento. Non sappiamo se ciò sia dovuto ad una svolta verso una vita morale, o sia semplicemente determinato dall'istinto naturale di voler creare una famiglia. E' certo però che Alex dimostra una visione disincantata e quasi profetica della vita: essere giovani è come essere piccoli giocattoli di latta che vanno a sbattere contro le cose e non ne possono fare a meno. I giovani devono passare attraverso questa fase e i genitori non possono fermarli; a loro volta, quando saranno genitori non potranno fermare i propri figli e così sarà fino alla fine dei tempi.
Dal romanzo è stato tratto l'omonimo film diretto da Stanley Kubrick. Tale adattamento per il grande shermo è ormai diventato un cult della narrativa cinematografica.

martedì 2 luglio 2013

La perfezione distorta de "Il Mondo Nuovo"



«Le utopie appaiono oggi assai più realizzabili di quanto non si credesse un tempo. E noi ci troviamo attualmente davanti a una questione ben più angosciosa: come evitare la loro realizzazione definitiva? [...] Le utopie sono realizzabili. La vita marcia verso le utopie. E forse un secolo nuovo comincia; un secolo nel quale gli intellettuali e la classe colta penseranno ai mezzi d'evitare le utopie e di ritornare a una società non utopistica, meno "perfetta" e più libera.»
[Nicola Berdiaeff – dall'epigrafe de Il Mondo Nuovo]



Brave New World (titolo originale del famoso romanzo di Aldous Huxley) esce nel 1932, in un clima politico assai inquietante. In Europa si stanno consolidando le ideologie militaresche dei diversi totalitarismi, le nuove parole d'ordine sono “programma” e “organizzazione”. Si tratta dunque di un mondo in pericolo, dove l'intervento massiccio dello Stato nella vita privata e la massificazione generale della società minacciano la conservazione dell'individualità.
Sono questi infatti gli oggetti della pungente critica huxleyana, che si propone di rovesciare l'ordine della perfezione e del benessere sociale a cui ammiccano i governi totalitari. Ne Il Mondo Nuovo, Huxley capovolge l'utopia nella distopia utilizzando una satira irriverente. La narrazione è limpida, tuttavia polemica, declamata, quasi favolistica: un particolare tono di sfida si ritrova nella macchinosa construzione del paradosso, nello smantellamento del buon senso e dei luoghi comuni.
Nel mondo di Huxley il calendario segue la numerazione dell'Anno di Ford, il fondatore dello Stato Mondiale perfetto, i cui principi sono: Comunità, Identità, Stabilità. In nome di questi valori, grazie ad uno sviluppo tecnologico senza precedenti, la società è stata suddivisa in classi sociali fisse, determinate dal corredo genetico. Le nascite infatti sono realizzate totalmente con metodi artificiali, si potrebbe dire “in serie”, e ad ogni categoria sono assegnate caratteristiche psico-fisiche che permettono di raggiungere un livello di benessere e felicità “appropriato”. Il condizionamento psicologico viene effettuato col sistema dell'ipnopedia, cioè l'insegnamento nel sonno condotto grazie a particolari apparecchi radio durante tutto il periodo dell'infanzia.
In questa realtà paradossale si sviluppa la storia di Bernardo Marx, appartenente alla prestigiosa classe Alfa Plus, ma dall'animo sovversivo. Accompagnato da Lenina Crowne, una donna perfettamente inquadrata nel sistema, il protagonista si reca nelle terre sconosciute dove incontra John il Selvaggio. Il giovane tenta di spiegare a Bernardo la necessità di recuperare la naturalità, di salvaguardare le tradizioni, di credere nella fede e nell'amore. Colpito dalla sua stravaganza e affascinato dalla possibilità di diventare famoso e venerato, Bernardo porta John nel Mondo Nuovo per mostrarlo alla Comunità come un fenomeno da circo. Tuttavia il ragazzo, incapace di adattarsi alla società alienante e tecnicizzata, si ritira in isolamento conducendo una vita da penitente. Infine, dopo una notte inconsapevole di danze orgiastiche, si toglie la vita sopraffatto dall'orrore per il proprio comportamento immorale. Questo racconto, in apparenza lineare, nasconde tematiche complesse. Analizzando il processo di trasformazione della moderna società industriale, Huxley individua i pericoli dell'efficientismo, della burocrazia, del consumismo, della quantificazione dei principi vitali. L'estraniazione dell'uomo dalla sua essenza biologica, sottolineata dal processo di fecondazione e nascita artificiale, è una forma di dissoluzione totale dell'individuo, una rottura del suo rapporto organico col mondo. Come modello da opporre a tale realtà disumanizzante, lo scrittore riprende il mito del buon selvaggio roussoiano, incarnato dallo sventurato John. Il Selvaggio rappresenta il recupero dell'aggressività istintuale, una calata nel mondo dell'inconscio; ciononostante non diventa un eroe, ma rimane una vittima del sistema, trasformato da figura utopica a simbolo distopico. La denuncia huxleyana non risparmia l'automatismo nel processo lavorativo, la razionalità produttivistica e l'omologazione forzata, alcuni dei grandi mali dell'età moderna che hanno portato alla catastrofe della Seconda Guerra Mondiale.

sabato 8 dicembre 2012

E' facile essere giovani?



 Dopo aver visto tutto il lato negativo (Gioventù avariata) della realtà delle nuove generazioni, ecco una breve riflessione psicologica sulle possibili difficoltà dell' essere giovani al giorno d'oggi.
Enjoy!
 
Molte persone, raggiunte le soglie della vecchiaia, si voltano indietro a guardare con nostalgia i loro anni verdi. Nel ricordo si mescolano gioie e rimpianti, soddisfazioni e rimorsi, ma la sensazione complessiva è quella di un’età in cui tutto era possibile.
A vent’anni si può ben dire di avere il futuro davanti. Eppure ciò non significa semplicemente essere liberi e “onnipotenti”, ma anche (e soprattutto) l’affrontare scelte difficili, spesso senza l’esperienza necessaria. E’ questo il momento in cui bisogna trovare la risposta alla domanda “cosa farai da grande?”, questo il momento in cui avviene il primo grande distacco dall’ambiente famigliare, questo, insomma, il momento in cui si prendono in mano le redini della propria vita. In questo senso si può dunque interpretare l’affermazione dello scrittore Paul Nizan: «Avevo vent’anni. Non permetterò a nessuno di dire che questa è l’età più bella della vita.»
Tuttavia, avere vent’anni nel 2012 non è la stessa cosa che averli avuti negli anni ’20. Può sembrare contraddittorio, ma essere giovani nel XXI secolo è allo stesso tempo più facile e più difficile di quanto lo sia stato in passato.
Innanzitutto, in che modo può essere considerata facile la vita di un ventenne dei nostri giorni? La questione si può ridurre ad una semplice frase e cioè che per i giovani d’oggi è “tutto pronto”. I nuovi media garantiscono un’informazione istantanea e totale, i numerosi elettrodomestici nelle case svolgono tutti i lavori manuali più faticosi, ed anche spostarsi è sempre più facile, se si considera che in Italia esiste in media un’automobile per persona. Molti genitori, inoltre, non riescono a vivere serenamente la crescita dei loro figli. C’è infatti la tendenza a considerarli bisognosi di tutte le possibili attenzioni, sebbene ormai non siano più bambini, cosa che ritarda sempre di più il momento in cui diventeranno indipendenti e in grado di badare a se stessi.
Questa vita “facile”, anche solo cinquant’anni fa, era impensabile. Prima dell’arrivo della televisione nelle case e prima della creazione del web il mondo dell’informazione era ancora cartaceo e non sempre accessibile a tutti. Senza tutte le facilities con le quali oggi conviviamo (quasi senza rendercene conto), i giovani dovevano essere in grado di supportare i genitori nella gestione della casa e ben presto diventavano autonomi.
Tuttavia le difficoltà non sono diminuite col passare degli anni, hanno semplicemente cambiato natura. Possiamo dire infatti che oggi il problema di fondo è di tipo psicologico.
La società odierna è terribilmente complessa ed alienante, in balia di regole su regole, plasmata da mode e tendenze. E’ una realtà sì affascinante per le opportunità che offre, ma allo stesso tempo spaventosa per la sua vastità ed i suoi molteplici aspetti. E’ naturale, quindi, sentirsi spaesati nel momento in cui ci si affaccia alla finestra e si osserva il mondo fuori, così lontano dalle rassicuranti mura domestiche.
Analogamente si può parlare della paura del futuro, in questo momento più sentita che mai. Le nuove generazioni hanno perso la fiducia nell’avvenire. La crisi, ormai non solo economica e non limitata al nostro Paese, sta annientando lo spirito, l’entusiasmo e la speranza che da sempre caratterizzano i giovani. Ben diversi erano i favolosi anni Sessanta,  in cui si affrontavano con passione tutti gli ostacoli e si era certi che il futuro avrebbe portato un incredibile benessere.
Concludendo, forse i vent’anni non sono stati per Nizan l’età più bella, ma nessuno può dirlo finché non li ha vissuti: l’importante è non farsi abbattere dalle difficoltà.

sabato 11 agosto 2012

Gioventù avariata

La crisi c'è per tutti è ormai una un'espressione di uso quotidiano. La sento spesso pronunciare con leggerezza, o accompagnata da una risata stridula e forzata, come per scongiurare un grande pericolo. Peccato che quel pericolo abbia già penetrato le nostre case, depositandosi su ogni cosa e su ogni persona come l'odore di fritto, opprimente per il respiro, che si attacca a tutto e se ne va solo dopo una bella lavata. Avremmo bisogno di una grande pulizia di primavera, anche in questa torrida estate. Bisognerebbe attuare un radicale rinnovamento, una selezione delle cose vecchie e logore da buttare e di quelle nuove e utili da tenere. E naturalmente dovremmo rivolgerci ai giovani, unica speranza per il futuro, per compiere questa grande impresa, per risollevare non solo il nostro Paese, ma tutto il mondo da una delle peggiori crisi della Storia.

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Ma ecco il desolante scenario che ci si presenta davanti: ragazzi e ragazze technology addicted, incapaci di comunicare se non per via mediatica, per lo più dipendenti da alcool e fumo. Per non parlare della tendenza all'omologazione, del progressivo abbassamento del livello culturale delle masse, della mancanza di valori e prospettive. E ancora, bambini violenti e intolleranti verso i loro coetanei fin dalla più tenera età, bambini viziati e prepotenti. Che razza di persone diventeranno, quando saranno adulti? Come possiamo affidare il futuro della Terra a persone a tal punto prive di giudizio, individualità, responsabilità, spirito di iniziativa e collaborazione? Si apre una prospettiva a dir poco inquietante. Forse non siamo molto lontani dai terribili mondi distopici di alcuni romanzi sci-fi.
Le nuove generazioni sono allo sfascio, questo è certo. E' una cosa di cui ci si puo' accorgere facilmente guardandosi intorno, osservando bambini e ragazzi, ascoltando quel poco che han da dire. Me ne accorgo io stessa, nella piccola realtà di un paese di campagna, dove una delle maggiori preoccupazioni della gente è quella di essere super-aggiornata sui fatti del vicino di casa. A volte mi capita di ascoltare o partecipare ad assurde conversazioni tra ragazzi e ragazze all'incirca della mia età e mi accorgo allora in quali proporzioni la crisi abbia investito i giovani, ed in quale modo subdolo e meschino. Perché i giovani stessi non si rendono conto del degrado della realtà in cui vivono ed è proprio questo lo scopo di coloro che utilizzano a proprio vantaggio il male delle altre persone.
Cercherò quindi di spiegarvi in cosa consiste questa crisi dei giovani e dirvi quali sono i fattori che la alimentano. Non voglio imbarcarmi nella scrittura di un saggio lungo e pesante, ma porterò esempi della mia esperienza personale, così, miei cari lettori, potrete giudicare voi stessi fino a che punto siamo arrivati. Dovrò scavare a fondo nella squallida quotidianità dei nuovi adolescenti e forse potremo trovare insieme una via d'uscita, un modo per fermare questo vortice che ci sta trascinando nell'abisso.
Partirò con una semplice schematizzazione della situazione attuale che ho realizzato io stessa. Potrete vedere molto chiaramente il loop che tiene prigionieri i giovani d'oggi.





Comincerò a parlare dell'ambito sociale, perché ritengo sia il nucleo del problema. La socialità è una caratteristica innata dell'essere umano, che si sviluppa fin dai primi anni di vita, un po' per imitazione, un po' per istinto. La capacità di relazionarsi con i propri simili nel modo più appropriato deve essere insegnata al bambino prima di tutto dal genitore e in seguito anche dagli insegnanti, nel suo percorso di formazione. Tuttavia, a me sembra che molti genitori non prendano sul serio questa tappa fondamentale della crescita dei loro figli. Proprio nel momento in cui essi avrebbero più bisogno della loro presenza, li abbandonano davanti alla televisione o davanti al videogame. Oppure li "parcheggiano" al pre-scuola, al dopo-scuola o al cre estivo. Molte persone al posto del loro affetto, nutrono i propri figli con dannosi surrogati. Non c'è da stupirsi (e tuttavia non riesco a non stupirmi) se molti bambini crescono come piccoli tiranni.
Vi propongo subito un episodio inquietante che mi è stato raccontato. Il figlio di una persona che stimo e alla quale sono affezionata, ha subito un grande trauma all'età di circa 3-4 anni (ora è uno splendido e intellegente bambino di 8 anni). Tornava a casa dall'asilo piangendo, dicendo di non volerci tornare. Aveva gli incubi la notte, si svegliava gridando. La madre, preoccupata, è andata a parlare con le maestre ed ha così scoperto che il piccolo era stato messo in un angolo e picchiato dai suoi coetanei, più di una volta! Lui non reagiva, perché i genitori gli avevano insegnato a non picchiare gli altri bambini! Sono rimasta sconcertata quando mi è stato raccontato il fatto. Non avrei mai immaginato che bambini così piccoli fossero capaci di formare delle vere e proprie bande di bulletti prepotenti.
Come si spiega il comportamento di questi bambini? Non serve essere esperti psicologi per dirlo. Ormai è infatti risaputo che i videogame violenti - così diffusi tra le nostre famiglie - hanno un'influenza altamente negativa sui bambini e i ragazzi in generale. Ma non solo, perché molti cartoni animati trasmessi alla televisione nelle ore più strategiche - la mattina a colazione, il pomeriggio all'ora della merenda - sono incentrati su combattimenti, lotte, guerre. E checché ne dicano esperti o meno, non è solo il sangue a determinare la violenza di film e cartoni animati. Perché dunque - mi appello ai genitori - non regalate un buon libro ai vostri figli? Un libro che parli d'amore e d'amicizia, un libro che parli di scienza, di storia, di avventure in mondi fantastici. Spronateli a leggere e ad imparare, spegnete quella scatola ronzante che tenete in cucina: si puo' vivere anche (e meglio) senza, credetemi.

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Ma proseguiamo questa triste analisi e addentriamoci nell'oscuro mondo dell'età adolescenziale. Molti genitori sono a dir poco terrorizzati da questo drastico passaggio, da questa metamorfosi dei loro bambini in persone (quasi) adulte. Ecco il momento dei silenzi senza motivo, degli inspiegabili e repentini cambiamenti d'umore, dell'atteggiamento arrogante e irrispettoso. Ma l'adolescenza non è sinonimo di ribellione. E' invece il delicato periodo in cui si forma la personalità di un individuo; è, per così dire, il momento in cui si ripassano per bene i contorni di un disegno per fargli assumere la forma definitiva. Detto ciò, è evidente che gli adolescenti siano esrtremamente malleabili e influenzabili nelle loro scelte e nel loro sistema di pensiero. La frase di un insegnante, il consiglio di un amico, un'esperienza positiva o negativa, possono determinare una svolta radicale nel comportamento di un giovane.
Questa, purtroppo, è una cosa ben risaputa nel mondo della televisione e dei media in generale. Il potere della pubblicità, sottovalutato dai consumatori privati, è ben conosciuto e sfruttato da tutti i potenti del mondo. L'influenza della pubblicità è tale da ridurre notevolmente il nostro libero arbitrio. E se gli adulti, già temprati da numerose esperienze personali, sono estremamente influenzati dalla pubblicità, cosa possiamo pensare dei giovani? So che è difficile convincersi di queste parole, io stessa che scrivo tendo a sentirmi immune da questo potere. Eppure, usando la razionalità, comprendo che i miei gusti sono condizionati, per quanto io mi sforzi di estraniarmi dalle tendenze generali. Ma se fatico a trovare i segni del condizionamento in me stessa, non posso dire altrettanto della gente intorno a me. Mi accorgo chiaramente di quanto una persona sia influenzata dai media nel modo di vestire, di parlare, di atteggiarsi, nei gusti e nelle idee.
L'esempio più significativo è quello della moda. Il concetto di moda non deve essere associato semplicemente all'abbigliamento, ma deve essere esteso a tutto ciò che consideriamo di tendenza. Non solo alcuni oggetti si possono definire trendy, ma anche (purtroppo) alcuni modi di comportarsi, alcuni modi di comunicare. Insomma, l'importante non è chi sei, ma quello che hai o quello che fai.

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Caso emblematico è quello dei social networks - idolatrati dalla maggioranza delle persone - che sembrano essere indispensabili per la vita sociale del XXI secolo. In realtà, i vari Facebook, Twitter, MySpace invece che aiutare a relazionarsi con gli altri, hanno notevolmente peggiorato la socialità della gente, ed in particolare quella delle nuove generazioni. Ora, poiché mi piace essere equilibrata e razionale, devo chiarire che non è il social network in sè ad essere dannoso, ma l'immagine che si è creata attorno ad esso e di conseguenza, l'uso che ne viene fatto. E' un classico discorso che viene spesso associato alla scienza e alla tecnologia, ma non è banale come sembra. L'invenzione della rete Web, forse una delle più importanti e rivoluzionarie del XX secolo, è nata proprio con lo scopo della condivisione dell'informazione. Informazione però che non viene proposta allo spettatore passivo, ma che deve essere cercata, analizzata e criticata dal singolo utente. Dunque, per non divagare troppo, anche il social network puo' essere un ottimo modo per la condivisione di informazioni e news dell'ultimo secondo. Il problema sta nel rapporto che si è venuto a creare tra l'utente e il mondo del social virtuale, fondamentalmente un rapporto di dipendenza.
Tutte le volte che vado a casa di amiche e accendiamo il computer, la prima cosa che vedo fare è controllare le notifiche su Facebook. Magari avevano spento il pc solo qualche minuto prima che arrivassi. Ma talvolta, anche persone ospiti da me mi hanno chiesto di "andare un attimo su Facebook" per controllare non so cosa. Insomma, se non sei tranquillo senza aprire Faccialibro ogni dieci minuti, non puoi negare di avere qualche problema. E io, dopo averci riflettuto un po', ho capito qual è il problema, perché i social networks sono così amati.

Tutti lo fanno, nessuno vuole ammetterlo: spiare le altre persone. Facebook è lo strumento assolutamente infallibile per scoprire cosa fa, cosa pensa, cosa piace ad una persona; è come un esteso documento d'identità che contiente tutte le informazioni più appetitose per i curiosi ficcanaso. E' inutile che mi vengano a dire che è comodo per restare in contatto, perché allora il buon vecchio MSN era più che sufficiente. La verità non è altro che questa, e cioè che grazie all'onnisciente Facebook, ora tutti possono soddisfare le proprie morbose curiosità. "E' ridicolo non iscriversi a Facebook per una questione di principio" mi è stato detto. Io, che sono una persona a cui non piace discutere, non ho risposto. Ma dentro di me sono rimasta sconvolta: lasciando perdere il fatto che ho i miei buoni motivi per non iscrivermi, vorreste dirmi che non ho neppure la libertà di avere un MIO PRINCIPIO indiscutibile?! Qui Orwell direbbe con soddisfazione: "Cosa vi avevo detto?" Altro che 1984!
Ma per fortuna che conservo qualche principio mio, non influenzato dalla tendenza di massa!


Twitter, il secondo social network più conosciuto, ha un altro problema. Sicuramente è anch'esso un veicolo di informazioni personali, ma più che altro viene utilizzato come una sorta di diario. La gente (l'ho fatto anch'io per un certo periodo, poi mi sono accorta della stupidità della cosa) scrive ogni minuto quello che sta facendo, se è stanca, se è felice, se è triste, se è arrabbiata, condividendo addirittura le funzioni biologiche (fino a questo punto non ci sono arrivata!). Twitter è il deposito degli sfoghi di tutte le persone incomprese e depresse oppure il biglietto da visita di individui che si sentono strafighi. Ma è apprezzato ancora di più da una moltitudine di bimbiminkia che impazziscono per questa o quella star del momento. Infatti Twitter, a differenza di Facebook, viene utilizzato direttamente anche da alcuni VIP e ci sono innumerevoli stupidi che credono di farsi notare, adulandoli in modo patetico. Io sono iscritta a Twitter, e non ho ancora capito se mi risulti di una qualche utilità o meno. Più che altro lo uso per pubblicizzare il blog.

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Ora, che sarete stanchi dopo questa lunga lettura (e vi avverto, ne manca ancora!), vi propongo una chicca del noto youtuber Canesecco. Buona visione!





Vi siete fatti qualche risata? Bene, sono contenta. E' ora di rimetterci al lavoro.

Riprendiamo dunque la questione della moda. Al giorno d'oggi, per essere trendy, non basta indossare abiti griffati, ma bisogna stare attenti a come si sceglie di passare il tempo libero. Perché se preferisci i libri alla discoteca o una serata in pizzeria all'happy hour, allora sei out. Sei simpatico sì, nessuno ha niente contro di te, però, come dire, sei un po' indietro rispetto ai tempi. Ti perdi la cosa più bella, amico, lo sballo!
No alcol, no party. Questo è il nuovo slogan. Anche le feste di compleanno ormai devono seguire le inflessibili regole dell'eccesso e della trasgressione. Le basi fondamentali di un party alla moda sono due:
1. Abbondanza di alcol: "Devo farmi qualche cicchetto perché altrimenti non riesco a ballare"
L'ho sentito con le mie orecchie. Tralasciando che "ballare" è una parola grossa per la discoteca, se non puoi fare a meno dell'alcol vuol dire che fondamentalmente ti vergogni di quello che consideri un divertimento. Ma chi ti costringe a farlo allora? Solo perché lo fanno tutti? Allora se diventasse di moda buttarsi nei pozzi, ti butteresti per primo? Non fa una piega.
2.Un numero esagerato di persone, ovvero il caos: "Ma alla festa di... Saremo solo in 20? Ma siamo pochissimi, che brutto...e poi cosa facciamo dopo aver mangiato? Dobbiamo assolutamente trovare qualcosa da fare, altrimenti è una noia e se ne vanno tutti."
Altra frase che ho sentito in prima persona. Innanzitutto, più persone ci sono, più la festa diventa dispersiva ed è difficile trovare qualcosa che possa coinvolgere tutti. Inoltre, perché tutti disdegnano il primo e fondamentale dono dell'Uomo, la parola? Discutere, scambiarsi opinioni, raccontare storie interessanti e divertenti, ascoltare l'esperienza di altre persone... Sono forse attività noiose? Da parte mia, ritengo siano queste le basi della vera vita sociale.

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E perché, secondo voi, tutti questi giovani cercano la trasgressione? E' un cane che si morde la coda, come già spiegato. Da una parte la pubblicità propone il binomio ALCOL=DIVERTIMENTO (nel video qui sotto potrete vederne alcuni esempi); dall'altra è il bisogno inconscio di evadare da una realtà sempre più degradata. E qui entriamo nell'ambito economico.



Essere alla moda è molto costoso. Pensate ai nuovi gadget high-tech, ai vestiti, a quanti soldi servono per uscire il sabato sera, tra benzina, cena, discoteca e alcolici.
Il problema qui riguarda la famiglia. Anche se la crisi economica ha ridotto di non poco lo spessore dei portafogli, molte famiglie mantengono il tenore di vita degli anni scorsi. Insomma, si vive al di sopra delle proprie possibilità sperando nell'arrivo della gallina dalle uova d'oro.
Inoltre si è progressivamente sviluppata la mentalità del: "Mio figlio deve avere tutto, deve poter fare tutto quello che vuole, è sempre lui la vittima, deve essere sostenuto in tutto e per tutto". E' sempre la stessa questione: per "rimediare" ad un rapporto troppo distaccato, si vizia il figlio assecondandolo in tutte le sue richieste. Così, tra uno smartphone e un iPad, sono sempre meno le risorse dedicate all'istruzione. Non che le famiglie rinuncino alle varie spese connesse alla scuola: quello che manca è l'incoraggiamento. Sono pochi i genitori che spronano i propri figli ad approfondire questioni e tematiche che vengono affrontate sui banchi di scuola. Allo stesso tempo però, è generalmente diffuso un certo orgoglio egoistico, per cui il figlio è perfetto e se ha dei problemi è sempre colpa degli altri. Mi racconta spesso il mio papà che quando era un bambino, se uno tornava a casa lamentandosi di essere stato picchiato dall'insegnante, i genitori rincaravano la dose, perché di sicuro se l'era meritato. Oggi, maestri e professori ricevono insulti e minacce - denunce, talvolta - se bocciano i bambini con delle difficoltà (e anche di questo ho i testimoni diretti, credetemi).

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Questo problema, unito alle cifre non indifferenti che richiede la frequentazione di scuole superiori ed univeristà, ha fatto sì che il livello culturale di massa si sia abbassato notevolmente in questi ultimi tempi. La cultura è ormai un privilegio dei ricchi, che possono permettersi di mandare i propri figli a prestigiosi istituti privati (per saperne di più: La scuola di serie B ). Chi invece non dispone di grandi patrimoni si deve accontentare di scuole pubbliche in cui talvolta manca adddirittura la carta igienica.
Non c'è da stupirsi poi se i giovani non si sentono motivati nello studio.
Non c'è da stupirsi se navigando sul web si trovano queste cose.



Avete riso? Vi capisco, ma ci sarebbe da piangere.
Sempre per restare in tema vi propongo un estratto di una conversazione fra due ragazzine di prima superiore che ho sentito, aspettando il treno la mattina.
Devo fare una piccola premessa: nel mio liceo, da un paio d'anni, grazie alla fantastica riforma Gelmini, sono state notevolmente ridotte le ore settimanali. Io, mantenendo il programma precedente, da settembre avrò tre giorni con cinque ore di lezione e tre giorni con sei. I nuovi arrivati non hanno neanche tutte le mattine da cinque ore, ma alcune da quattro. Le "seste ore", come le chiamiamo in gergo, non sapranno mai cosa siano.

A: "Facciamo qualcosa oggi dopo la scuola? A che ora esci?"
B: "Oh che palle, oggi ho cinque ore, quindi esco all'una meno dieci."
A: "Cinque ore?! Dev'essere una noia!"
B: "Madonna, ti giuro, se dovessi fare cinque ore tutti i giorni non ce la farei!"

Ovviamente non sono le parole esatte che hanno detto, ma il succo era questo. Non saprei come commentare questo episodio, credo dica tutto da sè.

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Bene, sono ormai alla fine di questo lungo monologo. Naturalmente non ho potuto affrontare tutte le tematiche relative al degrado delle nuove generazioni: ci sarebbero tante altre cose da dire.
In ogni caso, quello che ho scritto non è il frutto di un cavilloso ragionamento mentale, ma un semplice reportage nato dalla mia esperienza di giovane in mezzo ai giovani.
Mi aspetto delle critiche, senza dubbio. Sicuramente qualcuno mi accuserà di saltare alle conclusioni troppo in fretta, di non avere la mente abbastanza lucida in quanto parlo di una realtà in cui vivo e da cui potrei sentirmi urtata. E invito questo qualcuno a spiegarmi il suo punto di vista, a dirmi quello che pensa, perché questo post vuole essere una provocazione, una scintilla per accendere una discussione.
Sento la necessità confrontarmi con altre persone, non importa la loro opinione, perché devo capire fin dove arriva la mia capacità di osservazione ed analisi della realtà. Devo sapere se altri percepiscono il mio stesso disagio, se condividono le mie paure riguardo al futuro, o se mi sto fasciando la testa per niente.

Ma soprattutto voglio suscitare indignazione! Voglio che, leggendo le mie parole, rimangano indignati tutti coloro che si sentono estranei allo squallore di cui ho scritto.
Voglio che tutte queste persone urlino: NOI NON SIAMO COSI', NOI SIAMO MIGLIORI!
Voglio sentire qualcuno pronto a combattere per far valere la propria persona, pronto ad unire le proprie forze per trasformare questo mondo in un posto migliore.

Un giorno spiegavo ad una cara amica:
"Tutti noi dovremmo impegnarci al massimo in ogni cosa che facciamo, non importa compiere grandi imprese per essere un eroe. Possiamo cambiare il mondo con le piccole cose."
E lei mi ha risposto:
"Io penso che il nostro impegno, i nostri sforzi, le nostre passioni... Non siano piccole cose, ma grandi cose."

Ho capito che aveva ragione.

sabato 7 luglio 2012

Fascino e scaltrezza, le vie per il successo


Bel-Ami
di Guy de Maupassant
 
Molti critici hanno individuato nelle vicende di Georges Duroy, protagonista del celeberrimo romanzo di Maupassant “Bel-Ami”, un legame non indifferente con la vita dell’autore. Lo stesso Maupassant disse: «Bel-Ami sono io», riprendendo ironicamente la nota affermazione di Gustave Flaubert a proposito della sua Madame Bovary. Sicuramente, nella vita sregolata e nel carattere forte di Duroy si possono riscontrare alcuni elementi biografici dello scrittore, ma Maupassant allontana ben presto il personaggio dalla propria immagine, connotandolo piuttosto negativamente.
Duroy, arrampicatore sociale dall’atteggiamento quasi machiavellico, non conquista le simpatie del lettore, che pur lo guarda con una certa ammirazione per la sua scaltrezza. Nell’alta società parigina di fine ‘800, tutta scandali ed intrighi politici di ogni sorta, Duroy trova la sua strada facendo uso di una furbizia innata e di un irresistibile fascino. Tutte le donne cadono ai suoi piedi, travolte da una inspiegabile passione per quel giovanotto pieno di charme. Ma Duroy, così bravo nelle lusinghe, non è mosso da alcun sentimento nobile: «Tutte le donne sono puttane, bisogna usarle e non concedere nulla di sé […] L’egoismo per l’ambizione e per il successo vale più dell’egoismo per la donna e per l’amore». Ciò che realmente conta per il protagonista non è altro che il trionfo economico e sociale, tutto il resto è uno strumento per la propria ascesa.
Sebbene Duroy esca vincitore da questa lotta – è forse in questo che Maupassant si identifica, nella rapida fortuna del suo personaggio? – si può notare che una certa irrequietezza accompagna il giovane durante il corso della storia. Si tratta di un’ansia persistente di raggiungere sempre più alti obbiettivi, un’insoddisfazione della propria condizione che spinge Duroy a privarsi di ogni scrupolo per garantirsi una posizione migliore in società. Raggiunto infine l’apice del successo, «ubriaco d’orgoglio», sembra aver trovato la pace agognata. Ma viene da domandarsi quanto ancora durerà la sua tranquillità, se la sua fortuna sarà portatrice di una vera felicità o se l’euforia del momento non sarà soltanto una gioia passeggera.
Questa indagine psicologica, unita ad una critica generale verso la società di mondo fa di “Bel-Ami” un romanzo più profondo di quanto possa apparire ad un lettore poco attento.