Ciao a tutti, carissimi lettori!
Di seguito, in corsivo, la citazione che costituiva una delle tracce proposte.
«[…] Nato in una
famiglia di piccola nobiltà […] anima cavalleresca in un ambiente borghese,
egli non ha alcuna simpatia per questa società […], disprezza l’avidità del
guadagno, il lusso grossolano, la dissoluzione delle famiglie, la corruzione
dei costumi […].
La nobiltà feudale, di
cui Dante rimpiange lo sfacelo, è la nobiltà ideale dei romanzi cavallereschi,
che combatte ovunque per la difesa dei deboli e per il regno della giustizia.»
Gaetano Salvemini
Anno
Domini 1265: Firenze, capoluogo della cultura nord-italica devastata da pesanti
conflitti, politici e sociali, all’interno delle sue stesse mura, diventa terra
natia del poeta italiano più conosciuto al mondo, il «Sommo» Dante Alighieri.
Proveniente
da una famiglia della piccola nobiltà, Dante si dedica fin da giovanissimo agli
studi letterari, avvicinandosi presto ai canoni cortesi e allo Stil Novo, sotto
l’influenza dell’amico Guido Cavalcanti. Fondamentale è l’incontro con
Beatrice, la «gentilissima», simbolo di salvezza e fonte di un amore puro e
altissimo, la cui figura idealizzata sarà centrale nella ricca produzione
dantesca.
Non
meno importante è la partecipazione alla vita politica della città, alla quale
egli si sente profondamente legato. Guelfo di fazione bianca, Dante raggiunge
la carica di priore, posizione che gli consente per qualche tempo di mantenere
un certo equilibrio nel governo della città. Tuttavia, a causa del crescente
potere dei Ghibellini, viene condannato all’esilio nel 1302 e non farà mai più
ritorno alla sua città natale. Le peregrinazioni attraverso le terre del Nord
Italia e le soste nelle varie corti contribuiscono alla diffusione della sua
fama e quando muore nel 1321 a Ravenna presso la corte dei Da Polenta, è ormai
conosciuto in tutta la penisola e non solo.
È
bene ricordare che la società del periodo e dell’ambiente in cui vive Dante è
in progressiva trasformazione: i valori della nobiltà feudale vanno incontro ad
un inevitabile sgretolamento per lasciare il posto ai nuovi modelli della
borghesia, classe sociale di crescente potenza economica e politica. Ma il
Sommo Poeta non accoglie il cambiamento, restando tenacemente attaccato
all’idea di un potere universale come unica soluzione per risanare una società,
ai suoi occhi corrotta e degradata. Considerazioni che si ritrovano
inizialmente nella Monarchia,
importante trattato dantesco sulla politica, ma in seguito riprese anche nella Commedia, seppur nascoste da allegorie
ed eleganti metafore.
La
Commedia infatti nasce proprio da una
visione utopistica di Dante, dal desiderio di rigenerazione di un’umanità che
si è persa in una «selva oscura». Dante, immaginandosi protagonista di un
percorso di espiazione, dall’orrore dell’Inferno alla gloriosa redenzione del
Paradiso, si pone come il terzo uomo che, dopo Enea e San Paolo, abbia mai
compiuto, da vivo, un viaggio nell’Aldilà. Egli tuttavia non impersona solo se
stesso, ma anche tutta l’umanità, di cui si considera salvatore, incaricato
direttamente da Dio.
Le
prime tracce della condanna alla società sua contemporanea sono evidenti già
nel I° Canto della cantica dell’Inferno, che fa da introduzione all’intera
opera. Dante, appena uscito dalla selva del peccato, viene ostacolato dalle tre
«fiere», la lonza che simboleggia la lussuria, il leone, allegoria della
superbia e la lupa, simbolo dell’avidità. Questi tre peccati, secondo il poeta,
sono la fonte del deterioramento morale della società e l’arrivo provvidenziale
di Virgilio, guida di Dante nella discesa all’Inferno e nella salita del
Purgatorio, sembra indicare che la Ragione (di cui il poeta latino è allegoria)
sia l’unico mezzo per raggiungere la salvezza.
La
cantica dell’Inferno è naturalmente la parte della Commedia in cui è
maggiormente evidenziata la critica al mal costume. Quale miglior modo,
infatti, per condannare la corruzione morale, se non quello di ammonire i
lettori con truci descrizioni delle pene infernali? Così, troviamo i golosi
colpiti incessantemente da una pioggia terribile, gli avari e i prodighi
costretti a trascinare massi pesantissimi, i violenti immersi in un fiume di
sangue bollente, i fraudolenti puniti nei modi più svariati e infine i
traditori, nel più profondo dell’Inferno, sono torturati dalla presenza di
Lucifero.
Nonostante
ciò, Dante inserisce nella cantica dell’Inferno anche personaggi per cui nutre
un profondo rispetto: ne sono esempio le figure di Farinata degli Uberti,
avversario politico del poeta, ma «che aveva l’inferno a gran dispitto»; del
mitico Ulisse, l’uomo «dal multiforme ingegno» che non era riuscito a frenare
la sua sete di conoscenza; del maestro Brunetto Latini, che proclamava un
sapere troppo laico.
Ma
vi è un particolare episodio che dimostra il legame di Dante e la sua stima nei
confronti dei valori cavallereschi, ovvero la storia del tragico amore di Paolo
e Francesca presentata nel V° Canto dell’Inferno. Le anime dei due giovani,
travolte costantemente da una bufera, sono insieme anche dopo la morte, come
testimonianza del sentimento profondo che li ha uniti in vita. Pur essendo il
loro un amore adultero, Dante lo valorizza come un amore nobilissimo «che al
cor gentil ratto s’apprende», essendo nato grazie alla letteratura. Come
infatti racconta la stessa Francesca al poeta, lei e Paolo si sono innamorati
leggendo insieme il romanzo cavalleresco Lancillotto
e Ginevra: per loro «Galeotto fu il libro e chi lo scrisse».
Risulta,
in conclusione, significativa la definizione di Dante come «anima cavalleresca
in un ambiente borghese» proposta dallo storico Gaetano Salvemini, in quanto il
Sommo Poeta, nonostante la grandezza e il valore indiscutibile delle sue opere,
presenta una mentalità molto chiusa e diffidente nei confronti delle
trasformazioni sociali dell’epoca in cui vive.