E' stata una decisione presa così, di getto, senza pensarci troppo.
Un amico ci chiede: "Venite con noi a teatro, sabato prossimo, a vedere La visita della vecchia signora?"
"Perché no?" rispondo. Anche una mia compagna di classe ha un piccolo ruolo, sono incuriosita.
Solo in seguito ho realizzato che le mie conoscenze in ambito di teatro e recitazione erano assai scarse. Insomma, la prima e unica volta che avevo assistito, dal vivo, ad una rappresentazione teatrale, risaliva a circa dieci anni prima. Si trattava di Aggiungi un posto a tavola, celebre commedia musicale italiana, interpretata allora da un gruppo di giovani appassionati di teatro, miei compaesani.
Strano a pensarci: mi ero divertita assai quella sera, ma da quel giorno non mi sono più avvicinata al teatro. Forse non ne ho avuto l'occasione, forse ho seguito altri miei interessi, forse non ho conosciuto le persone che avrebbero potuto farmi apprezzare maggiormente questa particolare arte.
Tutto questo per dire che ieri sera, sabato 10 novembre 2012, ho riscoperto qualcosa di incredibile.
Al Teatro dei Filodrammatici di Faenza, la compagnia Filodrammatica Berton ha messo in scena (era ormai la quarta serata) il dramma teatrale La visita della vecchia signora di Friedrich Dürrenmatt. Conoscevo l'autore per aver letto I Fisici, perciò pur non sapendo quasi nulla della trama, mi aspettavo già uno spettacolo dal sapore agrodolce.
E così è stato, perché l'opera non si può definire né una commedia, né un dramma a tutti gli effetti. Il grottesco, elemento ricorrente in Dürrenmatt, è più evidente che mai e le risate hanno sempre una punta di amarezza. Nel complesso, una storia inquietante in cui l'amato tema della giustizia è ancora protagonista. Qui l'epigrafe che si legge in Una storia semplice di Sciascia (una frase dello stesso Durrenmatt, tratta dal libro intitolato “Giustizia” del 1985) calza proprio a pennello.
“Ancora una volta voglio scandagliare scrupolosamente le possibilità che
forse ancora restano alla giustizia”
Ma non voglio scrivere un'analisi o una recensione dell'opera. Ciò che voglio spiegare è il complesso dinamismo di emozioni che ho provato durante la rappresentazione.
Molte volte mi è stato detto che il teatro è ben diverso dal cinema, che si stabilisce un contatto misterioso fra attori e pubblico. D'altro canto anch'io ho numerose esperienze di palcoscenico e so bene quanto sia emozionante un applauso fragoroso. Tuttavia c'è qualcosa in più della "carica" che comunica il pubblico battendo le mani.
Pochi minuti prima dell'inizio, a sipario chiuso, potevo sentire l'agitazione degli attori, quell'ansia piacevole che si prova prima di entrare in scena. Durante lo svolgimento della storia, invece, ero totalmente immersa nella vicenda, in un certo senso non diversamente da quando guardo un bel film. Eppure c'era una sostanziale differenza ed era il senso d'immediatezza.
Ho capito finalmente cosa significa che ogni rappresentazione teatrale è unica. Ho provato direttamente l'affascinante sensazione del qui e ora, che un film, per quanto ben realizzato, non riesce a trasmettere. Il teatro non comunica solo con le parole degli attori. C'è qualcosa che va al di là delle singole battute, della mimica, della tecnica. Questo qualcosa è difficile da descrivere così, nero su bianco, ma - per fare un esempio forse più comune - è lo stesso qualcosa che rende la musica dal vivo incredibilmente più emozionante di quella registrata.
I Greci lo chiamavano pathos, noi forse potremmo tradurlo con sentimento.
Concludo quindi con il proponimento di tornare presto a teatro e con l'esortazione ai miei lettori a fare altrettanto!
(Nel frattempo, se siete attori, amanti del teatro o del cinema, o semplicemente volete esprimere le vostre considerazioni, siete calorosamente invitati a lasciare un commento!)
ps. Sinceri complimenti a tutti gli attori della Filodrammatica Berton, nonché al regista Luigi Antonio Mazzoni, per aver realizzato uno spettacolo davvero suggestivo.
Quando la donna seduta di
fronte a me si chinò per cercare qualcosa nella borsa, una pioggia di lunghi
capelli biondi le coprì il volto e le mani.
In quel momento uno strano pensiero
mi balenò nella mente, cioè che dietro quella chioma voluminosa potesse per un
attimo rivelarsi il reale stato d’animo della donna, per tante ore di viaggio nascosto
sotto una maschera impassibile. Un sorriso per un ricordo felice, una lacrima
per un amore perduto, un’espressione corrucciata di stanchezza, chissà. Nessuno
poteva sapere cosa celavano quei capelli chiari. Si era creato, in qualche
modo, uno sfasamento temporale fra l’io interiore della donna e la realtà esterna.
Il suo tempo personale aveva rallentato un poco il proprio corso ed ella era
entrata in una dimensione appartata, più intima, per ritornare la vera se stessa, anche solo per alcuni
istanti. Immaginavo allora un ghigno beffardo sul volto nascosto, che sembrava
dire: «In questo momento sono libera, non avete alcun potere su di me»
Ma naturalmente tutto questo
era un curioso gioco dell’immaginazione. Nemmeno mi ero accorta che la donna si
era già risollevata e teneva fra le mani una minuscola busta di plastica
contenente un gioiello. Mi presi allora la libertà di osservarla meglio,
approfittando del suo sguardo abbassato sull’ornamento per non sembrare
invadente.
Nel complesso si trattava di
una persona piuttosto anonima, una comune signora di mezz’età che non si
distingueva per un alcun particolare fisico, eccezion fatta per la corporatura
decisamente robusta. Di certo non si poteva definire bella, ma non vi era alcun
motivo per dire che fosse brutta.
Non sembrava, a giudicare dai
vestiti e dagli accessori, particolarmente ricca, ma nemmeno aveva l’aspetto
sciupato di chi suda per arrivare alla fine del mese. Insomma, era una persona qualsiasi.
Tuttavia c’era in lei
qualcosa di dissonante, qualcosa che ad una sola occhiata suscitava
nell’osservatore una sensazione di contrasto. Forse la mia fantasia correva
troppo, ma non potevo fare a meno di pensare che quella donna portasse il
fardello di un conflitto interiore. Per quale legge trascendente emanasse da
lei questo senso di disagio, non avrei saputo dirlo. Poteva anche trattarsi
semplicemente di una mia illusione.
Mi concentrai sul suo
abbigliamento e, ad una più attenta analisi, notai particolari insoliti che
prima mi erano sfuggiti. Portava strani occhiali da sole rotondi, dalla lente
appena rosata e quasi trasparente, che indossati sul viso incorniciato dalla
lunga capigliatura mi ricordavano lo stile un po’ hippy di John Lennon. Ma
l’effetto di discordanza era dato soprattutto dall’abbinamento di una tuta di
pile con degli stivaletti scamosciati molto in voga fra le ragazze più giovani.
Mi chiesi quale attività richiedesse una combinazione di vestiti così
particolare e formulai un’ipotesi tutta mia. Combinai dunque la presenza di un
grande zaino nero da palestra, sul sedile accanto alla donna, con il leggero
untore dell’attaccatura dei capelli, arrivando alla conclusione che stesse
tornando a casa da un faticoso pomeriggio di ginnastica. Magari, per la
stanchezza dopo l’esercizio fisico, aveva preferito tenere addosso la tuta cambiando
solamente le scarpe.
Cercai di reprimere un
ridicolo orgoglio per le mie brillanti capacità investigative, ripetendo a me
stessa che si trattava solo di un modo per far passare il tempo.
Intanto, a causa di quel mio
fantasioso divagare, avevo dimenticato la sensazione di incoerenza di poco
prima. Stavo proprio ridendo delle mie assurde considerazioni, quando dalla
piccola busta trasparente la donna estrasse un rosario.
La cosa mi sorprese
notevolmente e inizialmente non ne capii il motivo. Dopotutto moltissime
persone tengono al collo un rosario o un crocifisso. Eppure, nel gesto di mettere
al collo il sacro ornamento notai una certa ostentazione che si accentuò poco
dopo, quando la donna indossò un paio di grandi orecchini a forma di croce,
sempre provenienti dalla busta di plastica. Non si trattava semplicemente di
esibire i simboli del proprio credo religioso, la donna stava lanciando un
messaggio chiaro e forte a tutte le persone presenti. Lei era cristiana, assolutamente
devota, ed era felice perché aveva una certezza: la sua fede incrollabile le
avrebbe garantito il meglio della vita.
Non mi stupii di osservare
una nuova luce nei suoi occhi. Il viso mostrava ora un’espressione che
racchiudeva sollievo e soddisfazione. Potevo addirittura scorgere una punta di
orgoglio nella disinvoltura con cui adesso stava ripiegando la busta
trasparente per rimetterla nella borsa.
La misteriosa sensazione di
incoerenza di poco prima aveva dunque una spiegazione assai semplice.
La donna si trovava
effettivamente a disagio, ma non per un profondo conflitto interiore, bensì
perché si sentiva in qualche modo “nuda”, indifesa. Senza i simboli religiosi
che indossava tutti i giorni, aveva perso una parte importante della sua
identità. Forse per un attimo aveva persino dubitato della sua fede e questo
l’aveva fatta sentire perduta. Forse nel momento in cui il viso era nascosto
dai capelli aveva davvero versato una lacrima, ma non per un amore perduto. Più
probabilmente per il rimorso di aver dubitato anche un solo istante.
Così ora, carceriera di se
stessa, la donna si era nuovamente rifugiata tra le solide pareti della sua
salvifica devozione. Prigioniera di un’idea, ma finalmente felice.
L’altoparlante annunciò con
voce metallica la mia fermata: sorrisi educatamente e mi preparai a scendere.
In attesa che arrivi l'ispirazione per un nuovo post, carico un disegno che ho realizzato qualche tempo fa.
Ci sono momenti in cui mi sento davvero incapace di disegnare, ma riguardando questo, beh... Non mi sembra poi così male!
Che ne pensate?
[per ingrandire cliccate sull'immagine]